Il federalismo fiscale dei Comuni è nato morto, o forse non è mai nato. Nelle ultime settimane un combinato disposto di misure e sentenze mette a nudo uno dei limiti della riforma del Titolo V del 2001, misura pasticciata fatta last minute dal Pds di Massimo D’Alema premier – quello della Lega «costola della sinistra» -nel disperato tentativo di raggranellare qualche consenso al Nord ed evitare la clamorosa sconfitta elettorale. I Comuni avrebbero dovuto avere un’autonomia amministrativa e finanziaria grazie alla riscrittura di tre articoli della Costituzione, 114, 118 e soprattutto il 119, che avrebbe dovuto garantire loro «risorse autonome, propri tributi ed entrate».
Margini
«Sulla carta i Comuni avrebbero dovuto emanciparsi dalla dipendenza dallo Stato centrale. La realtà, però, è stata ben diversa: la maggior parte delle risorse dei Comuni continua a provenire da trasferimenti statali», dice a Moneta il sindaco di Pessano con Bornago (Milano), Alberto Villa, consigliere nazionale Anci già delegato nazionale alla Rigenerazione urbana. Ma quanto margine hanno i Comuni sull’Irpef? E sull’Imu? I Comuni sono davvero in grado di avere una libertà gestionale o sono tornati a essere un’appendice del fisco statale? Facciamo due conti: la stragrande maggioranza dell’Imu finisce allo Stato «che usa l’ente locale come suo gabelliere. Con l’aliquota al massimo (l’1,06%) lo Stato incassa il 72% dell’imposta e il Comune il 28% del gettito», ricorda Villa. Il risultato è un paradosso: la Costituzione ha riconosciuto il principio, ma il legislatore non lo ha mai reso pienamente operativo. I Comuni gestiscono servizi fondamentali per i cittadini (istruzione, trasporti locali, welfare di prossimità), ma senza la capacità reale di finanziarsi in modo autonomo. Per la piena attuazione dell’articolo 119, «il governo dovrebbe cedere alle autonomie locali una quota significativa di Irpef e riformare l’Imu», sottolinea il consigliere Anci.
Le imposte locali non sono facili da incassare in molti Comuni e i bilanci ne risentono, tanto che l’idea di un’agenzia di riscossione dedicata in cui far entrare Anci e l’Ifel, l’Istituto per la finanza e l’economia locale, recentemente ipotizzata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, potrebbe essere una prima risposta. L’idea è un agenzia «dedicata esclusivamente alla gestione e al recupero dei tributi locali» grazie a una serie di banche dati incrociate e «una struttura informatica avanzata» fornita da «partner come Sogei e PagoPa». La riscossione è un problemone per molte amministrazioni locali, di fronte a una media del 78%, un Comune su 10 è sotto al 55%, il tax gap tra i tributi realmente versati e quelli teoricamente dovuti segna circa 15 miliardi di entrate accertate e non riscosse accantonate nel Fondo crediti: si tratta di soldi sostanzialmente impossibili da esigere. Dal 2016 altri 12,5 miliardi di residui attivi divenuti inesigibili sono stati via via cancellati.
Di questi ancora nella contabilità malata dei Comuni ci sono 5 miliardi di Imu non riscossa (tra il 18 e il 22%) oltre agli 1,4 miliardi già recuperati e circa il 40% dei 10 miliardi di Tari. C’è «una evidente correlazione tra l’incapacità di riscossione e il pre-dissesto o il dissesto», ha osservato Giorgetti, pronto a dare anche per il triennio 2025-2027 ai Comuni il 100% delle maggiori somme accertate e riscosse. Milano è la più virtuosa con 35 milioni recuperati, bene anche Torino, Venezia e Bologna. L’indicatore sintetico della capacità di amministrazione vede al primo posto Venezia (8,6 punti, era quarta nel 2022), seguita da Brescia (+7,9) e Modena (+7,1). Sassari (5 punti) nona è la prima città del Sud. Roma (-8,5) sale al 28° posto, male anche Torino (-5,1 punti). Agli ultimi posti Napoli (-19,2), Salerno (-19,1) e Reggio Calabria (-9,8).
Ma la legge di Bilancio 2026 potrebbe permettere anche agli enti locali di rottamare (con uno sconto) Imu, Tari, canoni comunali e multe non pagate, a discrezione dei Comuni. La percentuale di riscossione delle entrate di natura tributaria, contributiva e perequativa (Titolo 1) è pari al 53% del valore accertato, come lo scorso anno. Tutto il sistema della Riscossione è ormai incapace di restituire il maltolto allo Stato e agli enti locali. Al 31 gennaio di quest’anno nel magazzino fiscale ci sono 1.300 miliardi di euro (più di un terzo del debito pubblico) polverizzati in 173 milioni di cartelle intestate a 22 milioni di italiani. Oltre il 76% delle cartelle è sotto i 1.000 euro ed è sostanzialmente esigibile al 10%, in attesa degli esiti della rottamazione Quater e del via libera alla Quinquies da 120 rate, su cui c’è la resistenza di una parte della maggioranza. In questa montagna di cartelle ci sono circa 42 miliardi di imposte locali inevase.
Le città maggiormente indebitate sono Milano (5 miliardi), Roma (4,9 miliardi), Napoli (3,8 miliardi) e Torino (3,4 miliardi). Si calcola che su ogni residente dei maggiori Comuni italiani (neonati inclusi) grava mediamente un debito di 1.697 euro nei confronti dell’amministrazione locale, con punte di 3.363 euro a Torino, 3.123 euro a Napoli e 3.012 a Milano. Al 31 dicembre scorso c’erano 487 Comuni in bolletta.
Decreti ingiuntivi
Quando un Comune va in dissesto a pagare è lo Stato. Ma c’è un’altra recente sentenza che potrebbe consentire anche ai creditori privati impantanati in fallimenti, dissesti e messe in liquidazione delle tantissime municipalizzate private (secondo i dati del ministero dell’Economia diffusi nel 2024 sarebbero più di 5mila) di rifarsi direttamente sulla presidenza del Consiglio con un decreto ingiuntivo, come quello presentato nelle scorse settimane da uno studio legale in forza proprio a una sentenza Cedu. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo lo Stato è il garante di enti locali e partecipate «in house». Il principio stabilito dai giudici di Strasburgo è che il mancato pagamento dei debiti da parte di una amministrazione pubblica violi sia il diritto di proprietà sia il diritto al giusto processo. In ballo ci sarebbero tra 10 e 12 miliardi di debiti nei confronti dei privati che lo Stato dovrà accantonare: per il 2026 Giorgetti ne ha già messi da parte 2,2.
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