Si fa presto a dire pensione. Ma è sempre più assistenza. La fiscalità generale è sempre più presente nella liquidazione degli assegni previdenziali. Itinerari Previdenziali, il centro studi di Alberto Brambilla, ha calcolato che 6 milioni e mezzo di pensionati – più del 40% del totale – gravano poco o tanto sul Fisco, cioè la loro contribuzione non è equamente rappresentata nella pensione che incassano. Sono a debito: hanno versato meno rispetto a quanto incassano. Nel 2023 sono costati circa 92 miliardi di euro, nel 2024 hanno superato i 100 miliardi.
Non sono solo le “pensioni sociali” o l’integrazione al minimo, nemmeno soltanto gli agricoli o gli invalidi (che pur pesano tanto sui conti, soprattutto quelli “falsi”), o i baby pensionati (che da soli costano circa 4 miliardi) ma è lo stillicidio di interventi – dalla quattordicesima mensilità, per le pensioni più basse, fino ai costi connessi alle uscite anticipate, tutte le quote, dalla 100 alla 103, le salvaguardie per gli esodati, gli scalini e gli scaloni – ad avere progressivamente accresciuto la dipendenza dal Fisco del sistema previdenziale.
È anche per questo che agli occhi del buonsenso sembra surreale continuare a rincorrere le uscite anticipate dal lavoro, che aggiungeranno debito a debito. Spesso mal contato. Già, perché mentre il sistema previdenziale e il suo meccanismo – «osceno nella sua complicazione, ma efficiente», commenta una ex funzionaria dell’Inps – è ormai sotto controllo, la spesa assistenziale è una bomba a orologeria. Quando scoppia non fa cadere solo i governi. Lo sfiduciato premier francese Francois Bayrou ha detto una cosa saggia: «Avete il potere di abbattere un governo, ma non di cancellare la realtà».
In Italia la Gias (Gestione Interventi Assistenziali) nel 2024 ha “drenato” oltre 180 miliardi dal bilancio dello Stato. Nel 2016 si era fermata a 107 miliardi. Il 68% in più in otto anni. Perché così tanta “assistenza” in più? È successo un cataclisma e non ce ne siamo accorti? O sono solo clientele? Nella Gias gravano gli interventi assistenziali al servizio delle pensioni (come detto circa 100 miliardi nel 2024) e molto altro: dal reddito di cittadinanza all’assegno unico familiare. Ma gli “oneri pensionistici” continuano a essere la gran parte della somma totale.
Ogni “quota”, ogni “scivolo”, ogni anticipo di uscita dal lavoro per incassare prima la pensione ha un costo sociale, che fa gonfiare le “spese” della Gias, direttamente derivate dalla Tesoreria dello Stato. Insomma, per dirla con una espressione gergale, “paga Pantalone”. Cioè alla fine tutti noi.
Spesso il luccichio di alcune vicende rende ciechi di fronte al sistema nel suo complesso. Una decina d’anni fa si scatenò la corsa all’elenco dei “pensionati d’oro”. Era da poco entrata in vigore la “Fornero” e tutti erano convinti che il calcolo contributivo avrebbe difeso i conti dello Stato, ma scassato le tasche dei meno abbienti. Vero solo in parte. Il campione di questa classifica era Mauro Sentinelli, dirigente Tim, il cui fondamentale contributo nella diffusione della telefonia mobile passò in secondo piano, di fronte all’entità della sua pensione: circa 91mila euro. Al mese. «Guardi che se avesse optato per il contributivo puro, come era sua facoltà, avrebbe incassato più di 130mila euro al mese di pensione», racconta una ex dirigente Inps che calcolò all’epoca la pensione di Sentinelli.
Eppure, non sono questi i casi che creano dipendenza dal Fisco. Piaccia o non piaccia chi ha (e ha avuto) alte retribuzioni senza gravare sulla collettività incasserà pensioni d’oro grazie al suo monte contributivo accumulato nel tempo.
Il sistema contributivo trasforma la previdenza in semplice assicurazione: versi tanto? Avrai tanto. Versi poco, avrai poco, magari anche niente, perché c’è una soglia sotto la quale il tuo monte contributivo non ti assicura una rendita. Innanzitutto, chiariamo che siamo in una lunga transizione. Vige il sistema misto.
Le pensioni calcolate con il sistema contributivo “puro” – a meno che siano richieste con la totalizzazione – entreranno in vigore quando andranno in pensione i lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il primo gennaio 1996. Insomma, più o meno intorno al 2036. Per i prossimi dieci anni il calcolo sarà ancora per tutti “misto”. «Un meccanismo che elargisce un regalo oltre misura a chi ha retribuzioni medio alte», spiega l’ex dirigente Inps che preferisce l’anonimato e aggiunge una riflessione purtroppo veritiera: «E non è un caso. La norma è stata scritta da chi faceva i conti per sé». Il calcolo del misto (che assicura una rivalutazione più che generosa dei contributi versati prima del 1996) conviene, rispetto al vecchio calcolo retributivo a chi ha un lordo oltre i 100mila euro. Un dirigente dello Stato è molto sopra questa soglia. E la norma è stata scritta da qualche dirigente della Pubblica Amministrazione, ovviamente.
Se 100mila euro all’anno di retribuzione rappresentano la soglia di “vantaggio” o svantaggio nei calcoli della pensione, l’età di 85 anni è considerata la linea di scommessa vinta o persa, nei confronti dell’Inps, secondo i calcoli dell’equilibrio attuariale. Se si vive oltre gli 85 anni si finirà per incassare più di quanto versato. Il “povero” Sentinelli, morto a 73 anni, nel 2020, nonostante la sua pensione faraonica ha perso la scommessa; quindi, ha versato più di quello che ha incassato. Per lui lo Stato non ha messo un euro. Anzi. Per 6,5 milioni di pensionati ha pagato lo scorso anno 100 miliardi. Per tutti 180 miliardi di assistenza, pronta cassa. Solidarietà sociale? Forse (anche per i falsi invalidi, ovviamente, e per l’eccessiva generosità del reddito di cittadinanza). Ma i conti del “welfare state” non sono sotto controllo.
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