Non eravamo vestiti alla marinara però si andava al parco del Valentino, Palazzo Esposizioni, per il grande evento: Il Salone dell’Automobile. Festa meravigliosa perché per tutti i giorni della fiera la Rai mandava in onda ogni mattina, per la sola zona di Torino e dintorni, film vari, in bianco e nero sopratutto, storie di guerra e di Totò contro Maciste, due ore per viaggiare con la fantasia davanti al televisore, elettrodomestico privilegiato per l’epoca.
Ma c’era il Salone, sostantivo unico, esclusivo, un superlativo che affascinava e regalava altro luna park di sogni, automobili lucidate a specchio, vetture avveniristiche, utilitarie, auto di gran lusso, portabagagli voluminosi, cofani sollevati a mostrare motori, spinterogeni, candele, tutta roba destinata poi a sparire per fare posto a tecnologie avanzate e indecifrabili. La visita al Salone del Valentino era una passeggiata, molti gli ossequi a persone e personaggi che ci descrivevano come figure illustri della Torino che contava, si sussurrava di Carlo Biscaretti di Ruffia che quel salone aveva inventato, si cercava l’ombra di Gianni Agnelli, spuntava qualche calciatore o pilota della Mille Miglia, c’era luce abbagliante dovunque, non sfarzo ma raffinata atmosfera tipicamente sabauda, fuori la Torino operaia e grigiastra, dentro il risultato del lavoro della fabbrica, espositori e marche straniere, pneumatici con la fascia bianca, volanti grandiosi. Poi c’era il settore riservato ai camion, autobus e affini, poi quello delle macchine movimento terra, in pratica trattori e caterpillar.
Qui sembrava di essere nel mondo di Jurassic Park, mostri orrendi, odore forte di gomma, torpedoni affascinanti ma anche strani automezzi, altezza dal suolo centimetri venti: trattavasi dei pullman adibiti al trasporto passeggeri negli aeroporti, non avendo frequentati gli stessi ci chiedevamo perché mai fossero così bassi, senza posti a sedere e con una cabina guida enorme. Beata gioventù, candida e romantica, mentre dietro quei bus e mezzi atti all’agricoltura e ai lavori di edilizia, c’era un universo da scoprire, mica i cavalli potenti delle vetture esposte, mica le belle donne accomodate di fianco alle stesse automobili (il vecchio senatore Agnelli, in verità, utilizzava l’articolo maschile «gli automobili») ma addetti, tecnici, gente di officina che spiegava l’uso e le qualità del mezzo.
La gita comportava raccolta di depliant in quantità industriali, pacchi di fogli che illustravano cilindrata, potenza e consumi, cifre misteriose ma di grande effetto per chi al massimo saliva sul tram o montava in filovia. C’erano la 600 e la 1100, c’era la Dauphine che si ribaltava anche in parcheggio, c’era l’Anglia con quel lunotto posteriore inclinato, c’era l’Appia e, insieme, la favolosa Aurelia B24, quella de «Il Sorpasso» film cult con Gassman e Trintignant, c’erano la Giulietta e la Jaguar E di Diabolik, era il tempo dei deflettori e dei portapacchi, niente aria condizionata ma finestrini abbassati all’aria d’autunno torinese, pagine di diario, album di fotografie di anni lontanissimi e comunque belli.
Oggi il Salone è itinerante, tra piazze e vie e parchi, un festival che offre a Torino l’occasione per farsi riconoscere, anche se la Fiat non è più quella di allora, anche perché gli Agnelli sono un’ombra senza corpo, anche perché il Valentino è un’isola solitaria, spenta la Fontana Luminosa, spente le luci del Salone, non c’è nemmeno l’odore di gomma, anche i trattori non fanno più paura. Resistono i bus che trasportano i passeggeri verso gli aerei ma sono esemplari in via di estinzione, sconfitti dai finger, i tunnel di imbarco, comodi, veloci però anonimi, impersonali. Soprattutto, non ci sono più i film in tivvù, al mattino.
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