La metà delle assenze dal lavoro sono “giustificate” con un certificato medico. La malattia non professionale è il motivo più frequente per non recarsi al lavoro: accade nel 3,3% del totale delle ore lavorabili di un addetto medio, che in un anno ammontano a circa 112 per lavoratore (sempre in media, ovviamente). E parliamo di assenze retribuite, che in totale valgono 14 giorni all’anno. Un po’ di più in realtà, visto che spesso l’orario giornaliero di lavoro si spalma su 6 ore, e non su 8. In questo caso si arriverebbe a circa 19 giorni di assenza. Quindi si sta a casa con certificato medico per un totale che varia tra 7 e 10 giorni all’anno. L’altra metà delle cause di assenza se la dividono la legge 104, i permessi retribuiti a vario titolo, le malattie professionali, che è giusto separare da quelle non collegate all’attività che si svolge.
La tendenza è documentata dalla crescita dei certificati medici emessi: 16,5 milioni nel primo semestre del 2025, con un incremento del 5%. Prima di sparare nel mucchio, accusando gli assenti di essere “furbetti”, bisognerebbe fare almeno due considerazioni: la durata della certificazione di malattia, la quantità e l’effetto dei controlli.
In entrambi i casi possono nascere dei sospetti sulla gravità della morbilità accusata. La media dei giorni per certificato non supera di molto i 4 giorni. Per fortuna poco meno della durata di un’influenza. Intendiamoci, nessuno deve fare l’eroe – se si sta male, si sta a casa – ma con queste certificazioni “brevi” è più facile immaginare che il medico sia meno rigoroso e predisposto a concedere piuttosto che a negare. Si aggiunga il fatto che i controlli stanno diventando una rarità. Nell’ultimo anno sono calati del 3%, in particolare nel settore privato sono diminuiti dell’11,4% con punte del 16,1% nel Centro Italia e del 14,4% nel Nord. E si arriva al -18,3% delle visite “fiscali”, per quelle avviate d’ufficio, a fronte di una richiesta datoriale di controllo che risulta aumentata del 4,4%.
Non è colpa del furbetto, se nessuno controlla, ma certamente il rischio diminuito di una verifica, suggerisce maggiore “allegria” nel certificare la necessità di una assenza. Vale per il paziente che si sente nel bisogno di una sosta a casa, vale per il medico di base indotto a essere meno feroce nella diagnosi e più generoso nella prognosi. In questo contesto si inserisce la recente disposizione – in vigore da pochi giorni, ma ancora inattuata, in attesa di alcuni decreti attuativi – che per il rilascio del certificato di malattia equipara la visita di persona a quella a distanza, la televisita. È curioso notare che questa tendenza all’aumento dei certificati di malattia e quindi all’aumento delle assenze per motivi di salute (o almeno così rubricati) non riguarda solo l’Italia. Uno dei Paesi europei con il record di assenze per malattia è diventata la Germania. Sì, i tedeschi – specialmente dopo la stagione del Covid, che ha modificato un po’ dappertutto la sensazione di fragilità, psicologica, oltre che fisiologica – hanno fatto segnare un insospettabile propensione alla malattia breve.
Una indisposizione collettiva che – come ricordava sulle colonne del Giornale l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – avrebbe fatto perdere lo scorso anno qualcosa come 77 miliardi di euro alle imprese tedesche, il doppio rispetto al 2010. In Italia chi paga il costo dell’assenza per malattia? Certamente l’Inps, che copre il costo dell’assenza giustificata e retribuita, dal quarto giorno in poi. Un totale di circa 3 miliardi nel 2024. Ma quanto pagano le aziende? Non esiste uno studio recente sul tema, nemmeno da parte di Confindustria. Si possono fare delle stime.
Se in media i certificati di malattia sono di poco più di 4 giorni e dal quarto giorno paga Inps per un totale di 3 miliardi, si potrebbe dire che il conto per le aziende non dovrebbe essere inferiore ai 9 miliardi. È certamente superiore a questa cifra, poiché molti contratti prevedono una retribuzione a scalare a fronte del prolungarsi della malattia. Ma è comunque un’approssimazione imperfetta. Se provassimo a fare un calcolo partendo dal costo orario medio del lavoro (che in Italia si aggira intorno ai 16,5 euro), moltiplicando per le ore di assenza per malattia (56 ore all’anno), verrebbe un costo di circa mille euro a lavoratore. Si parla di lavoratori dipendenti, circa 13-15 milioni di soggetti (non contando i tre milioni del pubblico impiego). Quindi 13-15 miliardi di euro. In questo costo per il sistema delle imprese non sono contabilizzati i costi indiretti: gli impatti sull’organizzazione sono assai diversi se si tratta di aziende piccole o grandi.
Non a caso le assenze dal lavoro passano dal 5% nelle microimprese (che sono la stragrande maggioranza in Italia) al 7,2% nelle imprese di grandi dimensioni. Il 6,6% è una media, e come tutte le medie rende tutto più grigio e indistinto. L’assenza poi pesa in maniera diversa a seconda della merceologia e del genere degli assenti: le imprese con un più alto tasso di occupazione femminile scontano qualche costo in più, dal momento che la morbilità femminile è mediamente più alta di quella maschile: nel 2024 l’incidenza delle assenze è risultata pari al 5,9% tra gli uomini e all’8,2% tra le donne.
Stiamo parlando di aziende private, fin qui. L’altra metà del mondo del lavoro (molto meno della metà in termini di occupati), quella del pubblico impiego, vive uno stato di salute a parte. Se le assenze (non solo per malattia) nel privato si assestano, come detto, al 6,6%, nel pubblico superano il 9%. Ma questa è un’altra storia.
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