Maiali alla riscossa con gli acquisti da parte delle famiglie italiane di carni suine fresche che aumentano del 3,7% in quantità e del 9,1% in valore mentre i salumi fanno registrare rispettivamente incrementi del 3,1% e del 4,8%, nei primi sei mesi del 2025, secondo l’ultimo rapporto Ismea. Un risultato sul mercato interno che viene accompagnato da ottime performance all’estero dove nello stesso periodo i salumi italiani registrano una crescita del 5,7% nel valore delle esportazioni, dopo che nel 2024 avevano raggiunto il record di 2,4 miliardi, nonostante le barriere sanitarie in alcuni mercati strategici come il Giappone. La chiusura per motivi sanitari dei mercati asiatici per i prosciutti stagionati e l’introduzione dei dazi Usa rappresentano proprio alcune delle criticità per il futuro. Gli Stati Uniti nel 2024 si sono confermati la terza destinazione per l’export (la Germania è la prima), con oltre 20.000 tonnellate (+19,9%) e un giro d’affari di 265 milioni di euro (+20,4% rispetto al 2023). Ma «se il tasso di cambio dovesse rimanere su livelli sfavorevole, si stima una possibile contrazione fino al 10%, con una perdita potenziale di circa 25 milioni di euro», ha affermato il presidente di Assica, Lorenzo Beretta, commentando l’entrata in vigore dei dazi maggiorati che hanno colpito anche la salumeria.
Non si tratta però dell’unica sfida. A livello di settore primario, l’allentamento dei vincoli imposti per contrastare la peste suina africana (Psa) ha rappresentato un segnale importante per il futuro degli allevamenti dove però ora si registra un preoccupante calo delle quotazioni e diminuisce la redditività delle stalle secondo l’indice Crefis. «Non esistono più zone di tipo 3 in Italia» per la peste suina ha affermato il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida sottolineando come «risultato storico il fatto che Sardegna, Lazio e la Calabria dopo 40 anni siano uscite completamente da questa criticità. Adesso l’obiettivo è eradicarla completamente». Una ripartenza importante dopo una emergenza che, con la decimazione degli allevamenti nelle aree più colpite, ha fatto tremare l’intera filiera. Anche se la preoccupazione resta. La peste suina africana è infatti una malattia virale che colpisce i suini, non pericolosa per l’uomo, ma devastante per gli allevamenti che possono essere contagiati dai cinghiali, il principale vettore della malattia. Si calcola che in Italia siano presenti 2,3 milioni di cinghiali che invadono città e campagne e favoriscono la diffusione di malattie a partire dalla Psa che ha messo in ginocchio per mesi un intero settore e che ora sembra in superamento grazie allo sforzo straordinario compiuto da migliaia di allevatori, che hanno investito risorse e adottato misure rigorose per innalzare i livelli di biosicurezza aziendale.

Secondo Ismea in Italia, l’offerta di capi avviati al macello nella prima metà del 2025 è risultata sostanzialmente stabile rispetto allo scorso anno (-0,5%), in parte per il persistere di problematiche sanitarie ma anche per l’aumento dei costi dei mangimi con una spinta al rialzo, soprattutto per il mais (+14%) e l’orzo (+26%) nel periodo gennaio-giugno. Segnali più ottimistici vengono per la produzione di prosciutti di Parma, la principale denominazione del settore, con 5.889.515 cosce sigillate al 31 ottobre 2025, il 4,2% in più dell’anno scorso. In Italia, secondo la Coldiretti, si contano circa 5mila allevatori professionali e altri 30mila piccoli allevatori in tutto che allevano 10 milioni di suini che rappresentano il prodotto di base per i grandi prosciutti e salumi nazionali, una filiera cardine del Made in Italy stimata pari a 20 miliardi di euro e che contribuisce in modo decisivo all’immagine del cibo tricolore nel mondo. Nel 2024 in Italia il consumo pro capite di salumi è stato di 16,5 chili mentre quello complessivo di salumi e carne suina fresca ha toccato quota 27,6 chili, secondo Assica che nella struttura dei consumi interni in quantità mette al primo posto il prosciutto cotto con il 28,1% del totale, seguito da prosciutto crudo (21%), mortadella e wurstel (19,7%), salame (8,5%) e bresaola (2,5%) mentre gli altri salumi rappresentano il restante 20,2%. La difesa degli allevamenti nazionali è determinante per il settore che può contare su ben 21 prodotti derivanti da carne suina nazionale che dispongono di una denominazione di origine protetta (Dop), il cui fatturato viene stimato in 11 miliardi di euro all’anno, buona parte dei quali realizzati sul mercato estero. La sigla Dop designa un prodotto originario di una regione e di un paese, le cui qualità e caratteristiche siano essenzialmente o esclusivamente dovute all’ambiente geografico (termine che comprende i fattori naturali e quelli umani).
Tutta la produzione, la trasformazione e l’elaborazione del prodotto devono avvenire nell’area delimitata, nel rispetto di una definita ricetta tradizionale. Una realtà colpita duramente dall’italian sounding. Ossia da prodotti che richiamano all’italianità senza aver alcun legame con il Belpaese e diffusi in tutti i continenti ma con Usa, Canada e Sud America che guidano la classifica. Il finto salame italiano, ad esempio, a seconda dei Paesi acquista denominazioni di origine inventate di sana pianta. Si va dal salame calabrese al salame toscano, ma ci sono anche quello Firenze, Milano, Genova, Friuliano o Napoli. Senza dimenticare la mortadella che trova falsari in Brasile, Argentina, Ungheria, Spagna (dove diventa Mortadela Siciliana). Da segnalare che negli ultimi anni con la guerra in Ucraina e l’embargo si è diffusa in Russia una fiorente produzione di imitazioni del Made in Italy. Il decreto di embargo in vigore ha vietato infatti l’esportazione in Russia di una importante lista di prodotti agroalimentari come frutta e verdura, formaggi, carne e salumi provenienti da Ue, Usa, Canada, Norvegia e Australia. Il risultato è che in molti territori, dagli Urali alla regione di Sverdlovsk, sono sorte fabbriche specializzate nella produzione di prodotti imitati, dai formaggi ai salumi italiani che hanno così sostituito gli originali.
E c’è addirittura chi, come l’azienda londinese Hoxton Farms, specializzata in tecnologia alimentare, ha appena presentato un dossier per chiedere il via libera alla commercializzazione del grasso di maiale ottenuto in laboratorio alla Singapore Food Agency (Sfa), che ha già concesso l’approvazione a tre startup del settore. Prevede di ricevere il via libera tra la fine del 2026 e l’inizio del 2027 ma nel frattempo ha annunciato anche richieste nel Regno Unito, in Nord America e in altri Paesi asiatici. Uno sbocco precluso nell’Ue dove l’Efsa non ha ancora rilasciato nessuna autorizzazione in merito e l’Italia ha adottato una legge che vieta la produzione e la commercializzazione di alimenti sintetici sulla spinta della raccolta di un milione di firme da parte della Coldiretti.
Una importante novità sul mercato a difesa dell’autenticità dei prodotti a base di carne di maiale potrebbe arrivare nell’Unione Europea. L’Europarlamento all’inizio di ottobre ha approvato il divieto di utilizzare termini «meat sounding» per indicare prodotti a base vegetale, nel nome della chiarezza e della tutela dei consumatori ma anche della filiera che subisce una pesante concorrenza dai nuovi prodotti ultraprocessati che stanno invadendo il mercato. «Un passo avanti importante per rafforzare la posizione degli agricoltori nella filiera alimentare per il quale ringraziamo tutti gli europarlamentari che hanno sostenuto le proposte che abbiamo avanzato assieme alle altre organizzazioni agricole di Francia, Spagna e Portogallo, a partire dalla relatrice Céline Imart», ha commentato il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini. Se il provvedimento sarà definitivamente approvato dopo le trattative interistituzionali (Commissione, Consiglio, Parlamento) potrebbe essere vietato dunque l’utilizzo dei termini come salsiccia, salame o prosciutto per prodotti a base vegetale. Un elemento di chiarezza per la maggioranza degli italiani che dichiara di mangiare carne ed essere onnivora (84,9%), secondo l’ultimo Rapporto Italia Eurispes 2025. Il 6,6% afferma, invece, di essere vegetariano e il 5,6% di esserlo stato in passato, mentre i vegani sono una ristretta minoranza al 2,9%.
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