Se volete sapere perché il mercato dei chip è il presente della ricchezza del mondo, prendete l’esempio di un’automobile, quella che magari avete appena comprato. Una volta vi sareste concentrati su pistoni e carburatore, adesso invece la preoccupazione è che sia abbastanza tecnologica, e questo comporta che all’interno del vostro veicolo ci siano almeno 200 sensori che lavorano insieme a questi piccoli dispositivi “pensanti”. Il silicio, dunque, è il nuovo petrolio, e visto che nel 2024 nel mondo sono stati vendute circa 75 milioni di quattro ruote, facendo una moltiplicazione avrete la quantità necessaria solo per il comparto auto. Che è una piccola parte di quello tecnologico, composto da miliardi di pezzettini pieni di circuiti che ormai arrivano ad essere grandi (si fa per dire) 4 nanometri, ovvero 4 miliardesimi di metro.
Fatte le proporzioni, ecco il perché il business fa gola a molti Paesi. E soprattutto ecco perché su Taiwan, che produce il 60% del fabbisogno mondiale di chip e il 90% di quelli avanzati, la Cina non scherza. Lo scenario è in evoluzione, e non è un caso (a proposito dell’era del petrolio al tramonto) che l’Arabia Saudita stia emergendo come un importante acquirente di hardware per l’intelligenza artificiale, compensando le restrizioni degli Usa – che puntano a far crescere il mercato interno, con una stima di un fatturato di 115 miliardi di dollari entro il 2029 – sulle vendite di chip AI a Pechino.
Anche l’Italia vuole diventare un centro di produzione importante: la singaporese Silicon Box ha annunciato un anno fa la realizzazione di un impianto di produzione a Novara, mentre StMicroelectronics punta su Agrate Brianza e Catania con un investimento complessivo pari a 4 miliardi di euro. Il tutto in un contesto in cui il nostro Paese si posiziona al terzo in Europa, dopo Germania e Francia, per la produzione di componenti elettronici che però finiscono quasi completamente all’estero.
I numeri parlano chiaro dunque, e il pericolo da evitare è che il comando delle operazioni resti in mano a pochi soliti noti: nomi come le statunitensi Nvidia, Intel e Amd che alimentano i dispositivi delle grandi aziende tecnologiche e quindi, la quasi totalità del mondo del futuro.
Chip fatti in casa
Per questo c’è una nuova parola che prendendo forma in questo settore, ovvero autarchia. E’ la mossa per esempio di Huawei, che si sta producendo i chip in casa per superare le restrizioni occidentali. Ma anche da questa parte del pianeta non si sta a guardare, e dietro le quinte Amazon ha costruito un’intera strategia hardware con una discrezione quasi militare. A guidarla è Annapurna Labs, azienda fondata in Israele e acquisita nel 2015, oggi responsabile dei chip su cui si basano milioni di server di Amazon Web Services, la piattaforma cloud più usata al mondo. Gadi Hutt, Director of Business Development di Annapurna Labs, racconta a Moneta la strategia che sta portando i tre laboratori di Austin, Toronto e Tel Aviv a produrre il fabbisogno interno di microprocessori: «Abbiamo iniziato creando chip per router domestici – spiega -, ma volevamo qualcosa di più: costruire componenti che potessero essere programmati a seconda delle esigenze. Lo stesso chip poteva fare cose diverse per clienti diversi, semplicemente cambiando il software».
È il segreto di Nitro, il primo grande successo della divisione: un chip che si occupa di sicurezza, memoria e traffico dati nelle casseforti virtuali AWS, «Oggi usato praticamente in ogni server Amazon: voi non lo vedete, ma lui è lì che lavora». Nitro è il risultato iniziale della politica di non affidarsi più a fornitori esterni, ed è stato poi seguito dall’arrivo di Graviton, basato su architettura ARM, più efficiente nei consumi e pensato per gestire grandi carichi di lavoro: «Oggi è usato da oltre 50 mila clienti nel mondo – continua il manager -, e grazie a lui abbiamo aziende che risparmiano milioni di dollari ogni anno solo passando a questi processori. Ridurre la dipendenza da produttori terzi ha anche un altro risvolto: avere più controllo sull’infrastruttura. E in un mondo in cui tutto cambia in fretta, poter progettare tutto in casa è un vantaggio enorme».
In pratica: l’intelligenza artificiale ormai si fa in casa. Anche se quando nel 2016 Annapurna iniziò a lavorare al programma, pochi credevano davvero che il risultato sarebbe arrivato: «Era un progetto piccolo, quasi sperimentale, ma avevamo capito che il futuro sarebbe passato anche da lì». Quei chip primordiali sono diventati poi Inferentia e Trainium, le due piattaforme hardware su cui Amazon addestra e fa funzionare i suoi modelli di IA. E che sono quelle che producono le interazioni con Alexa, l’assistente vocale che risponde a milioni di domande ogni giorno, e che tra poco arriverà in una versione Plus che promette un contatto linguistico quasi umano: «I chip come Inferentia sono ottimizzati per fare una cosa sola, ma farla bene: elaborare richieste e fornire risposte in tempo reale».
Filiera fragile
Come detto, progettare chip oggi non è solo una questione tecnologica, ma anche geopolitica. Con le tensioni tra Stati Uniti e Cina, le restrizioni all’export e la guerra in Ucraina, la filiera globale dei semiconduttori è sempre più fragile. Annapurna non vuole dipendere da un solo Paese e neppure da un solo fornitore, e per questo – oltre ai tre Lab tra Israele e Nord America – si appoggia a diversi partner produttivi: «Abbiamo ridondanze ovunque, perché ogni singolo chip conta. E dobbiamo essere pronti a ogni scenario. L’innovazione non si può fermare per un conflitto o un embargo».
Nonostante la loro natura hardware, i dispositivi di Annapurna nascono per essere invisibili, «e il nostro scopo è che il cliente non debba mai pensare a quale chip sta usando: deve solo funzionare. E per questo, in realtà, produciamo molto più software». Approccio che porta poi Hutt ad avere un pensiero realistico sul futuro dell’intelligenza artificiale: «C’è molto entusiasmo, e a ragione. Ma non parliamo ancora di IA generale, per il momento siamo a strumenti che possono aumentare la produttività, velocizzare ricerche, automatizzare attività complesse». Il mondo di Io, robot è quindi ancora lontano, ma è già chiaro come i chip siano la chiave per entrarci da protagonisti. L’indipendenza tecnologica impedirà che quel mondo diventi un’oligarchia.
© Riproduzione riservata