«È un momento complicato, un momento di incertezza» e da questa incertezza «deriva la posizione di 600mila persone che lavorano nell’industria della moda e 600 mila nell’indotto. Dobbiamo fare molta attenzione a non far influenzare dai dazi la grande capacità produttiva e distributiva che abbiamo». Lo dice Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda italiana le cui previsioni stimano un calo del fatturato del settore pari al 3,8% nel primo semestre 2025 sullo stesso periodo del 2024. Il saldo commerciale complessivo nei primi due mesi del 2025 è stato positivo per 4,2 miliardi, in diminuzione però di 1,1 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2024.
«Il problema ora – ribadisce Capasa – è molto politico, macroeconomico». La crisi generalizzata del settore non dipende solo dai dazi trumpiani. A colpire di più il comparto dell’alto di gamma è il rallentamento dei consumi in Cina. I dati sulle vendite al dettaglio, ben al di sotto delle attese, che nel mese di aprile segnano un +5,1% su base annua rispetto alla stima del 5,5%, hanno innescato una raffica di vendite sui titoli della moda, già sotto pressione da settimane per via della guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca. Secondo gli analisti, l’Asia si sta confermando l’area geografica più debole per il settore del lusso, con un calo complessivo del 10% su base annua.
Tra le grandi firme Prada continua a muoversi controcorrente in uno scenario che Patrizio Bertelli, presidente e amministratore esecutivo del gruppo, definisce «sempre più turbolento e incerto». Non tanto, tuttavia, da avere impedito alla casa di moda di acquistare Versace. In attesa del closing nella seconda metà del 2025 e del lungo lavoro per rilanciare il brand della Medusa, nel primo trimestre il gruppo milanese ha visto crescere i ricavi a due cifre (+13%) a 1,34 miliardi. Anche le vendite retail sono salite del 13% a 1,21 miliardi con il marchio Prada rimasto stabile mentre Miu Miu (+60%) ha confermato di essere il vero motore dell’azienda.
L’area Asia Pacifico, quindi la Cina, ha registrato una crescita del 10%, nonostante una base di confronto impegnativa e condizioni di mercato sostanzialmente invariate. Il Giappone ha segnato +18%, seppur con un rallentamento che continuerà. Le Americhe hanno registrato un +10% nonostante la crescente volatilità, supportate dalla domanda locale. I riflettori restano ora puntati sugli Stati Uniti dove il gruppo Prada ha investito molto, anche di recente. La casa di moda – ha indicato l’ad Andrea Guerra – non ha ancora deciso se alzare i prezzi negli Usa: lo valuterà da questo mese quando il quadro sarà più chiaro. «La situazione è ancora incomprensibile», in attesa di sapere se saranno confermati o meno i dazi sull’Europa, ha sottolineato anche Luciano Santel, chief corporate and supply officer di Moncler rispondendo agli analisti dopo la presentazione dei conti trimestrali. Per il brand Moncler, il wholesale in Usa rappresenta il 20% del totale, in gran parte grazie ai department store. Il contributo del wholesale è solo del 13% a livello globale. Negli Stati Uniti solo un paio d’anni fa nel 2022, l’apporto era di circa il 35% e 10 anni fa del 50 per cento. Anche i grandi conglomerati del lusso devono fare i conti con le turbolenze.
È un inizio d’anno in salita per Kering, che chiude il primo trimestre con ricavi in calo del 14% a 3,88 miliardi di euro, decisamente peggio del previsto. Il gruppo del lusso è zavorrato dalla performance negativa di Gucci, scesa del 25% a tassi comparabili a 1,57 miliardi, con un crollo sia nel retail diretto (-25%) sia nel canale wholesale (-33%). I problemi non riguardano però solo il marchio di punta. Saint Laurent ha registrato vendite per 679 milioni (-9% comparabile), Bottega Veneta è salita a 405 milioni (+4%), mentre le altre maison hanno incassato 733 milioni (-11%). Nel frattempo, ad aprile Hermés ha scalzato Lvmh dal trono del lusso europeo diventando il titolo a maggior capitalizzazione del Cac40 di Parigi (l’indice delle blue chip francesi) e il terzo in Europa. Il sorpasso è avvenuto dopo che le azioni di Lvmh sono sprofondate in Borsa in seguito ai risultati del trimestre che hanno mostrato ricavi ben al di sotto delle attese. Il conglomerato di Bernard Arnault che controlla i marchi di fascia alta Louis Vuitton e Dior, il marchio di gioielli Tiffany & Co e la catena di negozi di bellezza Sephora, ha deluso le aspettative per le vendite in Usa e Cina. E così il valore di mercato è sceso. Ne ha approfittato Hermés che con la sua base di clienti ultra-ricchi e la produzione strettamente controllata ha resistito meglio dei rivali al recente rallentamento del settore del lusso azzoppato dai dazi e dalla frenata dell’economia cinese.
Sullo sfondo le maison devono misurarsi anche con altre variabili, dalla reputazione alle nuove tecnologie. È da poco stato pubblicato il Vogue Business Index, la classifica biennale di 60 principali marchi di moda e del lusso, la cui performance viene valutata sulla base di oltre 160 dati relativi a sentiment dei consumatori, digitale, omnichannel, ESG e innovazione. Louis Vuitton rimane al primo posto, Dior supera Gucci e si piazza al secondo. Ralph Lauren sale di 7 posizioni e arriva fino al quarto posto, beneficiando della “recessione digitale”, come la definisce Vogue. Poi Saint Laurent (+2), Hermès (-2), Prada (-1) e Chanel, che scende di tre posizioni. Burberry (-1) e Fendi (stabile) completano la top ten.
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