Quando la politica economica si piega all’ideologia, e l’industria si inchina al potere anziché denunciare l’assurdo, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: una transizione che non transita, un mercato che non risponde, e un settore — quello dell’auto europea — ormai prossimo all’autodemolizione.
L’appuntamento del 12 settembre tra la presidente Ursula von der Leyen e i vertici dell’industria automobilistica europea arriva con un ritardo che grida vendetta. E non sarà una stretta di mano né una dichiarazione d’intenti a salvare il comparto. Troppo tempo è stato sprecato in liturgie burocratiche, in alibi verdi e in una retorica ecologista incapace di confrontarsi con il principio primo dell’economia: la realtà.
Il Green Deal, per come è stato concepito, è una costruzione astratta, imposta con la foga di chi non conosce la fatica della produzione, né le dinamiche del mercato, né le condizioni materiali dell’innovazione. Ma sarebbe un errore imperdonabile attribuirne la responsabilità esclusiva alla tecnocrazia di Bruxelles. Perché la verità è che i costruttori europei, Stellantis in testa, hanno assecondato in silenzio. Hanno calcolato, aspettato, temporeggiato. Hanno pensato che le norme si potessero aggirare con l’ingegneria finanziaria, con le auto-immatricolazioni, con le scorciatoie dei piazzali pieni di elettriche invendute.
Quando Jean-Philippe Imparato, manager europeo di Stellantis, annuncia che la società rischia sanzioni per oltre 2,5 miliardi, e che per evitarle bisognerà raddoppiare le immatricolazioni elettriche o eliminare i motori endotermici, non sta descrivendo un piano industriale: sta confessando un fallimento. E se la minaccia è la chiusura di alcuni stabilimenti, la domanda è semplice: con quale diritto si può parlare di rilancio del settore in Italia, se il primo gesto è sempre la dismissione?
L’Italia, va detto con chiarezza, è trattata ormai come terra marginale del gruppo Stellantis. Le promesse del nuovo ceo, l’italiano Antonio Filosa, si sono scontrate con la durezza dei fatti. Nessuna inversione di rotta è realmente visibile. I numeri delle produzioni calano, la cassa integrazione si moltiplica, e lo stillicidio occupazionale prosegue sotto silenzio. Tutto accade nella totale assenza di un progetto credibile per il nostro Paese. Si parla di piattaforme future, di ipotetici modelli da lanciare «nei prossimi anni». Ma intanto i turni si riducono, i fornitori chiudono, le famiglie attendono risposte che non arrivano.
E il governo? Qui si tocca forse la parte più dolente di questa parabola. Per mesi il ministro Adolfo Urso ha convocato tavoli, annunciato intese, parlato di «filiera da ricostruire». Ma di concreto non si è visto nulla. Nessun vero piano di reindustrializzazione, nessuna imposizione al gruppo di rispettare una strategia nazionale, nessuna mossa autonoma per attirare altri produttori o diversificare la presenza manifatturiera. A forza di inseguire Stellantis con il cappello in mano, l’Italia ha finito per diventare spettatrice del proprio declino.
Ci si era illusi che la transizione ecologica potesse essere un’opportunità per rilanciare la competitività europea. Invece si è trasformata in una trappola. Non perché manchi la volontà di innovare, ma perché si è preteso di farlo con la forza della legge, e non con la forza del mercato. Il risultato è che oggi si producono auto per evitare multe, non per soddisfare la domanda. Si lavora per Bruxelles, non per i clienti. Si investe in immagine sui propri giornali – Stellantis è l’esempio più scandaloso – non in nuove fabbriche.
La consultazione pubblica lanciata dalla Commissione Ue sul futuro del Green Deal automobilistico è l’emblema perfetto di questa schizofrenia. Un questionario ridicolo, volutamente tecnico, barocco, pensato per tenere lontani i cittadini e per dare l’illusione di un dibattito. I risultati, previsti per il 10 ottobre, arriveranno a giochi fatti, come timbro a decisioni già prese.
Allora, occorre avere il coraggio di dirlo: è tutto da rifare. Da zero. Ma stavolta bisogna partire dalla verità. Che è scomoda, ma necessaria. La verità che i costruttori hanno avuto paura di sfidare Bruxelles finché conveniva tacere; la verità che Stellantis sta smontando pezzo dopo pezzo la sua anima italiana; la verità che il governo italiano ha avuto paura di alzare la voce; la verità che questa transizione, così com’è, non salverà il clima: distruggerà solo un pezzo di civiltà industriale.
Venerdì 12 settembre potrebbe essere l’ultima occasione. Ma perché lo sia davvero, servono parole dure, impegni precisi, e soprattutto atti concreti. Se anche stavolta usciranno solo comunicati e buone intenzioni, allora l’auto europea sarà destinata a restare senza motore. E l’Italia in fondo al corteo.
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