Un bene rifugio che raddoppia il proprio valore nel breve volgere di tre anni non per forza è una buona notizia. Certamente chi in questi anni ha mantenuto saldamente una porzione di portafoglio investita in lingotti d’oro non può che compiacersi, ma l’esuberante ascesa del valore del metallo più prezioso funge anche da barometro della nube di incertezza che aleggia sull’economia. Il susseguirsi di record è sintomo di una crescente dose di paura tra gli investitori che preferiscono quindi cautelarsi accumulando oro. L’exploit di questa riserva di valore vecchia di 5.000 anni è sotto gli occhi di tutti: in questo 2025 segna un eloquente +40%, che fa seguito al +27% dello scorso anno, superando di gran lunga le performance dei maggiori indici di Wall Street e facendo impallidire persino il Bitcoin, che si ferma a ‘solo’ +20% nonostante la criptovaluta sia finita nelle grazie dell’amministrazione Trump.
La corsa all’oro è divenuta sempre più sfrenata nelle ultime settimane con il palesarsi di ulteriori minacce di non facile risoluzione. La più tangibile nel breve periodo è la doccia gelata che ha colpito il mercato del lavoro statunitense, che ha alimentato le attese di una serie di tagli dei tassi da parte della Federal Reserve. Tassi più bassi significano prezzi dell’oro più alti, poiché l’asset rifugio per eccellenza diventa più appetibile rispetto agli investimenti privi di rischio quali i Treasury Usa. Mentre la Federal Reserve si appresta a premere il pulsante “cut” sui tassi di interesse, il timore è che l’inflazione rimarrà ai livelli attuali o addirittura superiori, a causa degli effetti dei dazi che inizieranno a farsi sentire. Ciò significa che i tassi di interesse reali al netto dell’inflazione diminuiranno, anche qui alimentando l’appeal dell’oro.
A calamitare gli acquisti sull’oro c’è un ulteriore elemento riconducibile sempre alla banca centrale americana, ossia le crescenti preoccupazioni per la sua indipendenza, acuitesi dopo che Donald Trump ha annunciato il licenziamento della governatrice Lisa Cook. Da quando è tornato alla Casa Bianca il tycoon non ha perso occasione per attaccare frontalmente la Federal Reserve e il suo numero uno Jerome Powell. A luglio, proprio in scia alla pubblicazione del report che ha evidenziato i primi scricchiolii del mercato del lavoro, a farne le spese è stata Erika McEntarfer, responsabile delle statistiche del ministero del Lavoro, anche lei licenziata. “Il numero crescente di attacchi all’indipendenza delle istituzioni economiche statunitensi, come il Bureau for Labor Statistics e la Fed, ha attirato molta attenzione e le implicazioni a lungo termine per la gestione delle politiche sono significative e riguardano la veridicità e completezza dei dati statistici oltre alla possibilità di un prolungato periodo di politica monetaria eccessivamente espansiva”, spiega a Moneta Peter Kinsella, global head of Forex Strategy di Union Bancaire Privée (Ubp).
Uno scenario in cui l’indipendenza della maggiore banca centrale al mondo viene messa in discussione potrebbe innescare delle reazioni a catena sui mercati. Più specificamente, gli strategist di Goldman Sachs hanno messo nero su bianco una previsione shock che potrebbe innescare un rally del metallo giallo verso i 5.000 dollari l’oncia, ossia oltre il 35% sopra il livello record a cui attualmente viaggia. Uno scenario in cui l’indipendenza della Fed è compromessa porterebbe in dote, con ogni probabilità, un’inflazione più alta, tassi di interesse a lungo termine più elevati e quindi prezzi delle obbligazioni più bassi, prezzi delle azioni più bassi e un’erosione dello status di riserva del dollaro. “Al contrario, l’oro è una riserva di valore che non si basa sulla fiducia istituzionale. Se gli investitori privati dovessero diversificare maggiormente in oro, come hanno fatto le banche centrali, vediamo un potenziale rialzo dei prezzi dell’oro anche oltre il nostro scenario di “rischio estremo” di 4.500 dollari, che è già ben sopra quello base di 4.000 dollari per metà 2026, data la dimensione molto piccola del mercato degli Etf sull’oro fisico rispetto ai Treasury è solo dell’1%”, è l’indicazione del Global Commodities Research di Goldman Sachs guidato da Samantha Dart. La banca d’affari a stelle e strisce stima che, a parità di altre condizioni, se solo l’1% del mercato dei titoli di Stato statunitensi si riversasse sull’oro, la quotazione del metallo giallo salirebbe a quasi 5.000 dollari l’oncia.
Tra i catalyst principali che stanno spingendo verso il metallo giallo molto di rado viene menzionata la SCO, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai che rappresenta circa il 40% della popolazione mondiale e oltre un quinto del Pil globale. “Dal combinato disposto dei recenti meeting Brics e SCO emerge una volontà di procedere ad accordi commerciali bilaterali che sempre meno si basano sul dollaro come moneta di scambio”, spiega a Moneta Maurizio Mazziero, fondatore della Mazziero Research. “Questo contesto suggerisce che, pur non essendoci stato un annuncio formale, l’oro è percepito come uno strumento fondamentale per la diversificazione economica e la resistenza al dominio del dollaro da parte delle nazioni SCO”, aggiunge Mazziero.
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