Nati tra diffidenze, l’inflazione a doppia cifra e la concorrenza dei Bot che allora garantivano rendimenti stellari, a distanza di 40 anni dall’esordio i fondi comuni italiani sono chiamati ad affrontare sfide ben diverse, ma altrettanto delicate: dalla competizione dei prodotti passivi alla rivoluzione tecnologica, fino al ricambio generazionale degli investitori. Per fare un tuffo nel passato e allo stesso tempo proiettare lo sguardo al futuro chi meglio di Pietro Giuliani, presidente di Azimut, veterano dell’industria del risparmio gestito. Nel 1985, quando i fondi italiani erano ai loro primi vagiti, lui entrava in Fideuram come responsabile rete distribuzione e servizi finanziari per le imprese, per poi iniziare nel 1990 la lunga avventura in Azimut.
Ingegnere sono passati quattro decenni dal lancio dei primi fondi comuni italiani. Da decano, che ricordo ha dei primi passi dell’industria?
«Agli albori in effetti io c’ero e i primi anni non è stato affatto facile. I fondi comuni stentavano a decollare. Davanti a un’inflazione che oscillava tra il 15 e il 25% la gente andava diritta sui Bot. Tanti italiani già allora avevano buoni risparmi e traducendo da lire in euro, con 100mila euro grazie ai Bot si incassavano rendimenti del al 15-20% con cui si poteva pagare l’affitto di una casa. Era un periodo da pionieri del Far West e le reti non percepivano commissioni. Qualcosa cambiò con l’instabilità della lira quando attraverso fondi obbligazionari esteri si riusciva a creare arbitraggi sulle valute con rendimenti considerevoli, fino al 30%».
La vera scintilla come arrivò?
«Il grande salto ci fu con l’ingresso delle banche. Gli istituti di credito, che prima vivevano benissimo con le commissioni sui dossier amministrati, con il ridimensionarsi dei tassi hanno virato sul risparmio gestito e questo ha fatto decollare l’industria dei fondi. Ai tempi le banche detenevano l’85-90% di tutto il mercato. Non sono mancate le controindicazioni. Passando da dossier amministrati a fondi obbligazionari, quando i tassi scendevano tutto andava via liscio, quando invece risalivano la gente vedeva la perdita stampata in conto capitale e questo ha innescato diverse difficoltà».
Quali sfide attendono oggi gli asset manager per competere in Italia e a livello internazionale?
«Lato produzione le sfide sono molteplici: la grande divisione tra chi fa attivo e chi fa passivo, avere una rete di società di gestione in giro per il mondo come abbiamo fatto noi e siamo gli unici in Italia ad averlo fatto, terzo, la necessità di investire nell’economia reale. La maggior parte delle società di gestione sono ancora indietro sui private asset che consentono di dare rendimenti maggiori essendo prodotti illiquidi che in un certo senso costringono chi investe a lasciare i soldi per più tempo permettendo al gestore di investire meglio; questo stabilizza il portafoglio quando i mercati fanno le bizze.
Azimut come si è mossa?
«Siamo partiti in largo anticipo oltre 10 anni fa, due anni prima degli Usa nella distribuzione dei prodotti illiquidi. Oggi abbiamo circa 7 miliardi di masse in gestione sugli alternativi e oltre settanta prodotti».
Lato distribuzione le sfide si chiamano intelligenza artificiale e intercettare le esigenze delle nuove generazioni.
«L’innovazione si riflette nel cambio di spartito per il consulente finanziario, con più interazione a distanza e sempre meno faccia a faccia. Relativamente invece alle nuove generazioni indubbiamente esprimono differenti tendenze. Ma è prematuro avere oggi un focus esclusivo su di loro in quanto dispongono ancora di risorse limitate e a mio avviso quando nei prossimi anni ci sarà il naturale ricambio generazionale, e avranno in dote più capitali, probabilmente non li investiranno in maniera eccessivamente rischiosa andando a preferire una sorta di continuità con l’esempio dei genitori».
Con la rivoluzione AI l’investimento in tecnologia appare un must per tutti e per farlo bisogna per forza avere dimensioni più cospicue?
«L’asset management è un po’ come l’investment banking, è un business fatto di persone. Se tu hai solamente 20 persone fai fatica a competere con chi ne ha 200, perdi deal, ma non è per nulla detto che se hai 20mila investitori darai performance migliori di chi ne ha 200, anzi sovente gestori più grandi danno performance più basse dei più piccoli. Sono 40 anni che sento che bisogna essere più grandi, negli ultimi 30 anni la nostra performance media al cliente è più 32% rispetto all’indice del mercato. Non sono per la logica crescere tanto per crescere in quanto non c’è bisogno di essere enormi. Detto questo indubbiamente i player sono chiamati a investire tanto in digitalizzazione ed intelligenza artificiale».
Il punto è anche la strada che si sceglie per diventare più grandi .
«L’asset management in Italia giocoforza non può crescere ai tassi, ad esempio, dell’Egitto; attaccare mercati emergenti è strategicamente molto importante. Oggi in Italia abbiamo qualche operatore che è più grande di noi, ma producono solo in Italia».
Molti asset manager stanno ridisegnando le loro strategie aprendosi ad esempio agli Etf attivi, una sorta di ibrido tra due modelli di gestione.
«La gestione attiva parziale attraverso gli Etf è come un’automobile con alcune componenti montate e altre no e si dice all’acquirente se sei capace le monti. Fare gestione attiva è diverso da replicare un indice. Relativamente ai costi, va ricordato che tra il miglior fondo azionario e il peggiore ci sono 40 punti di differenza, è abbastanza miope soffermarsi solo sull’1-2% in più, mentre ha più senso far guadagnare il cliente e le classifiche vedono primeggiare i fondi che costano di più».
Cosa ne pensa di possibili assist da Bruxelles che potrebbero aprire al modello svedese con incentivi fiscali in ambito Ue per chi investe?
«Premetto che gli investimenti si dovrebbero fare indipendentemente dalla presenza di un vantaggio fiscale, che chiaramente è il benvenuto e può far comodo all’industria e a chi lo riceve. Ma il vantaggio fiscale non deve essere l’elemento essenziale, perché alla fine te ne fai poco o nulla se non è accompagnato da buoni rendimenti. L’importante, quindi, è che i soldi siano gestiti in maniera corretta».
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