Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (la numero 27118 del 9 ottobre scorso) segna un passaggio cruciale nel delicato equilibrio tra Agenzia delle Entrate e contribuente e tra imprese e amministrazione finanziaria, spostando i rapporti di “forza” a netto favore di quest’ultima: infatti, se le scritture contabili risultano inattendibili, incomplete o false, il Fisco può ricostruire i redditi non dichiarati anche basandosi su presunzioni semplici.
In altre parole, quando le scritture contabili di un’impresa non sono credibili o presentano errori formali, non sarà più il Fisco a dover dimostrare in modo pieno e diretto l’esistenza di redditi occultati per pagare meno tasse, ma sarà il contribuente a dover provare la correttezza del proprio operato. Si tratta di una vera e propria inversione dell’onere della prova che potrebbe cambiare le strategie difensive in molti contenziosi tributari.
La sentenza si riferisce al caso di una frode fiscale scoperta dalla Guardia di Finanza: una società era stata accusata dalle Entrate di utilizzare fatture false emesse da imprese “cartiere”, ossia entità fittizie prive di struttura, personale, mezzi e attività economica create unicamente per generare costi fittizi e ridurre l’imponibile fiscale, agevolando così le frodi fiscali (come evasione e riciclaggio di denaro) a vantaggio di altre società.
Secondo la linea adottata dalla Corte, al contribuente non basta più criticare il metodo o il calcolo adottato dal Fisco: deve invece dimostrare, in modo puntuale e documentato, di non aver commesso alcuna irregolarità. In caso contrario, la ricostruzione presuntiva dell’Agenzia resta valida.
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