Federico Freni è tra gli uomini macchina più in vista del ministero dell’Economia. Sottosegretario in quota Lega, un passato da avvocato e professore universitario, è considerato un abile mediatore e un acuto osservatore. E mentre sale la tensione sul fronte Unicredit-Bpm, il sottosegretario invita a guardare oltreconfine: «Facciamo un bel parlare di banche e Golden Power, ma in Spagna c’è un’Ops su una delle principali banche e il governo si è inventato un referendum popolare per vedere se questa Ops è giusto farla». Il riferimento è alla consultazione pubblica (non è vincolante) del governo spagnolo sulla proposta di acquisizione di Banco Sabadell da parte di Bbva. Partiamo da qui.
Sottosegretario Freni. Cosa sta accadendo in Spagna? A quale logica risponde la scelta del governo di sottoporre a referendum un’operazione finanziaria, sia pure di grande delicatezza?
«La decisione del governo spagnolo di indire una consultazione pubblica sul lancio dell’Ops di Bbva su Banco Sabadell non rappresenta solamente una stortura che travalica la dimensione della politica. Vincolare un’operazione di mercato a un referendum popolare significa mettere in discussione un modello economico-culturale che è stato ritenuto inviolabile da quando, nel mondo occidentale, la politica e la finanza hanno deciso, giustamente, di esercitare ruoli differenti, interloquendo sì tra di loro, ma evitando commistioni e invasioni di campo».
Cosa ci dice questo referendum?
«Siamo di fronte a una distorsione del concetto di democrazia finanziaria. Occorre fare attenzione a non trasformare il dialogo e la collaborazione tra la politica e la finanza – nell’interesse esclusivo dei cittadini – in un abbraccio soffocante che mette a repentaglio l’indipendenza e l’autorevolezza di entrambi».
Dal punto di vista di un politico, quale è oggi il ruolo delle banche sulla tenuta economica e fiscale di un territorio?
«La politica può e deve accompagnare la crescita e lo sviluppo della rete bancaria territoriale valorizzando una sinergia pubblico-privata. Credito e spesa pubblica non sono incompatibili. Al contrario possono essere la fonte comune di investimenti e progetti capaci di valorizzare il rapporto tra lo Stato e il mercato, questo sì funzionale a creare nuove opportunità per i cittadini e per le imprese. I principi non cambiano: indipendenza e rispetto reciproco. A cambiare è la natura di queste interlocuzioni – ben altra cosa rispetto alla potestà su un’Ops – e la mission di una collaborazione che deve essere incentivata perché fondata su forme trasparenti e, queste sì, finalizzate alla crescita del territorio».
Come collima questa attenzione, pure legittima, di un governo che utilizza anche questo strumento per tutelare uno specifico territorio con quelle che sono le spinte in direzione dell’Unione Bancaria e della cooperazione transfrontaliera?
«L’esercizio del Golden Power risponde, tra gli altri obiettivi, anche alla tutela della sicurezza nazionale, una dimensione perfettamente compatibile con quella europea. L’Italia rappresenta un esempio virtuoso: l’evoluzione della normativa ha permesso di superare le criticità che in passato hanno generato rilievi da parte della Commissione europea e della Corte di giustizia Ue. Non si tratta di mettere freni alla concorrenza o affermare la superiorità di un fantomatico Stato regolatore. Nessuno si scandalizza, giustamente, per la Golden Share inglese piuttosto che per l’Action Spécifique in vigore in Francia. È il momento di liberarsi di retaggi culturali che hanno identificato la tutela dell’interesse e della sicurezza nazionale con la longa manus di uno Stato interventista».
I riflettori sono accesi su quello che sembra il vero nuovo business bancario, ovvero il wealth management insieme al risparmio gestito. Sempre alla luce di un’eventuale Unione Bancaria, quale sarà lo sviluppo di questo settore?
«L’evoluzione del wealth management e del risparmio gestito va ricondotta a fattori eterogenei, che vanno dalla dimensione puramente economica a quella tecnologica. È un processo che non va demonizzato. Al contrario è espressione di uno sviluppo dell’attività bancaria che può ampliare le attività in favore di cittadini e imprese. Restando alla dimensione economica, è una risposta all’inflazione e al rialzo dei tassi di interesse, oltre che alla volatilità dei mercati: sono tutti fattori che stimolano la domanda di prodotti a difesa del capitale. Guardando alla dimensione tecnologica, la diffusione dell’Intelligenza artificiale renderà sempre più ricercata sia la profilazione dei clienti che la personalizzazione dei portafogli. L’invito è guardare al bicchiere pieno: wealth management e risparmio gestito non sono fonte di ricchezza per le banche a discapito dei cittadini».
Sullo sfondo sono in cantiere altri grandi cambiamenti: la riforma del Tuf, la legge Capitali e il Mercato Unico: quale sarà l’impatto sul sistema e sul risparmio degli italiani?
«La legge Capitali e la riforma del Testo unico della finanza rappresentano due step di uno stesso percorso che punta a canalizzare il risparmio verso l’economia reale, e in particolare a sostegno delle piccole e medie imprese. Per noi è essenziale che il risparmio privato non finisca all’estero, ma contribuisca allo sviluppo dell’economia reale del Paese. Nessuno vuole mettere le mani nelle tasche dei cittadini, ma è necessario scuotere il salvadanaio: il tasso di risparmio convogliato sull’economia reale oggi è fermo al 4%, un valore ancora troppo basso, anche rispetto al tasso medio del risparmio privato. L’impiego del risparmio nell’economia reale attiverebbe un circolo virtuoso dal quale tutti ne trarrebbero vantaggio, a partire dagli stessi risparmiatori che decidono di investire».
Quale è oggi, considerate le complessità del sistema bancario, la funzione reale delle Fondazioni e delle Casse di previdenza?
«Le Fondazioni e le Casse di previdenza sono player strategici nell’ecosistema del mercato. Per troppo tempo abbiamo guardato a questi mondi con diffidenza, identificandoli come autoreferenziali e addirittura nocivi. Occorre, invece, rimetterli al centro. Per archiviare, o comunque ridimensionare, la stagione del debito e dare spazio a quella dell’equity, occorre lavorare per un disegno comune tra pubblico e privato. Nella “scatola” degli investimenti, un ruolo importante deve essere affidato, quindi, alle Fondazioni e alle Casse, riconoscendo a questi enti un’autonomia sulle decisioni in base alle proposte di investimento e, allo stesso tempo, beneficiare dell’apporto che questi investitori possono dare al sistema».
Sono in corso grandi trasformazioni geopolitiche, dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente alla guerra commerciale combattuta a colpi di dazi, come dovranno affrontare questa grande sfida le istituzioni europee e italiane?
«Occorre evitare di agire in maniera compulsiva e disordinata. Le tensioni commerciali che stanno caratterizzando i rapporti tra gli Stati Uniti e gli altri “blocchi”, non solo l’Europa, vanno ricondotti a dinamiche che a caratteri inediti associano fattori tipici degli scossoni che caratterizzano, ciclicamente, gli equilibri economici e finanziari globali. Bisogna lavorare per evitare di rinchiuderci dietro barriere commerciali che farebbero male a tutti. Ma l’allarmismo non fa bene a nessuno. Qualcuno era già pronto a preparare il funerale dell’Europa dopo l’annuncio di Trump sui dazi al 50%, ma abbiamo visto come è andata a finire. A prevalere è stata la volontà, comune agli Stati Uniti e all’Europa, di collaborare per trovare una soluzione. Agiamo con responsabilità e nervi saldi, promuovendo azioni di dialogo».
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