In questi tempi di transizione ambientale e riconfigurazione industriale, si fa strada una narrativa inquietante e pericolosa: quella secondo cui il capitalismo starebbe “divorziando” dalla democrazia e dalle regole. Sarebbe in atto, secondo alcuni, una rottura strutturale tra libero mercato e architettura normativa dello Stato. Talché, la concorrenza sarebbe diventata invisa perché premia troppo i consumatori e deprime gli investimenti; l’insofferenza nei confronti di ogni controllo di legalità una espressione di coraggio politico e imprenditoriale; infine il mercato, intoccabile totem del pensiero liberale e delle democrazie rappresentative, apparirebbe di colpo invecchiato o addirittura inutile. E via argomentando sul voltafaccia nei confronti dei temi della sostenibilità, sull’utilizzo esasperato del Golden Power in difesa di situazioni che rifiutano il confronto con il mercato stesso, e altro ancora.
Insomma, secondo questi paladini della purezza tutta d’un pezzo, nella nostra società si sta facendo strada una genia di imprenditori che, complice il governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni, procede a spallate contro il buon senso e il vivere democratico. Davvero è così? O si tratta di una semplificazione ideologica, figlia di regolazioni mal congegnate e incapaci di comprendere le dinamiche reali dell’innovazione?
Intanto osserviamo che queste intemerate sono a senso unico, non considerano cioè l’ambiente entro cui queste deviazioni si sono fatte largo, perché è innegabile che una certa degenerazione sta segnando il nostro tempo. E tuttavia, i nostri paladini nemmeno lontanamente si sentono sfiorati dal dubbio che se deviazioni ci sono, magari vi hanno anche contribuito le condizioni esterne.
Se una istituzione ultra rigorosa come Assonime, l’associazione delle società quotate, non esita ad affermare che «in Italia la regolamentazione, andando al di là delle direttive europee, è diventata un ostacolo per la crescita dei mercati pubblici», e che «il peso degli oneri burocratici e amministrativi per le società quotate è aumentato in modo significativo, addirittura triplicato dal 1998», non è difficile intuire perché proprio Assonime chiede una sostanziale deregulation se davvero si vuole la nascita in Europa di un solo mercato dei capitali.
La conclusione è che il capitalismo non fugge dalle regole. Le cerca. Le pretende. Ma le vuole coerenti con la realtà economica, e non dettate da ansie moralistiche, tecnocrazie fuori controllo o burocrazie che ostacolano più di quanto governino. Lo scontro vero non è tra economia e legge. È tra una visione intelligente e flessibile della regolazione, e una rigidità normativa che spesso si traveste da virtù ecologica o etica, ma finisce per strangolare l’impresa, l’innovazione e persino la transizione green. Quanto a quest’ultima, si tratta indubbiamente di una delle più grandi sfide della nostra epoca. Ma i suoi strumenti operativi – tra vincoli ambientali, target energetici, eccesso di autorizzazioni e piani centrali – la stanno rapidamente trasformando in una gabbia. L’ideale ecologista si è fatto decreto, il principio di precauzione è diventato ostacolo alla produzione.
In questo scenario, non è sorprendente che il capitale – specie quello privato, chiamato a finanziare la nuova rivoluzione industriale – manifesti insofferenza. Non perché voglia libertà assoluta, ma perché senza capitale non c’è sviluppo, e senza regole compatibili con la crescita non ci sarà transizione ecologica. Ricordava Joseph Schumpeter che «l’innovazione richiede grandi investimenti iniziali. Solo il capitale accumulato può sostenerla». In altre parole, lo Stato non basta. Oggi gli Stati, stretti tra debito e consensi fragili, non hanno i mezzi per guidare da soli una trasformazione tanto profonda. Devono necessariamente affidarsi all’impresa privata. Ma se questa è costretta a muoversi in un labirinto normativo che punisce il rischio e soffoca il merito, è facile che l’impianto salti.
C’è qui una lezione che ci viene dai padri del pensiero liberale. Adam Smith non predicava il laissez-faire anarchico, ma invocava uno Stato che crei le condizioni perché il mercato funzioni: infrastrutture, giustizia, regole stabili. E concludeva: «Il grande nemico della prosperità pubblica è l’incertezza del diritto». Dunque, non comitati, cavilli e decreti settimanali. Friedrich Hayek, altro grande liberale, avvertiva del pericolo di una pianificazione centrale che creda di sapere «ciò che è bene per tutti», e che finisca per impedire al sistema di auto-organizzarsi. Infine, Luigi Einaudi ammoniva che «il compito di uno Stato centrale non è fare, ma far fare». A questo proposito, è comprensibile la critica verso un governo che partecipa al capitale di una banca (il casus belli è l’11% di Banca Mps posseduto dal Tesoro), ma non quando quel governo si è fatto carico del suo salvataggio con 8,5 miliardi di denaro pubblico di cui alla fine ne vedrà restituiti la metà. Perciò, fino al momento della cessione della quota residua, ha tutto il diritto di dire la sua sui progetti dell’istituto.
Per tornare al tema centrale, la vera frattura non è tra capitalismo e democrazia. È tra chi crede che le regole siano un mezzo per creare libertà e chi le usa come fine ideologico o strumento di potere tecnocratico. Non sarà un caso che quanti oggi gridano alla degenerazione del capitalismo italiano sono gli stessi che un tempo osannavano come massima espressione del capitalismo il mondo Mediobanca, un’istituzione che più anti-mercato non potrebbe essere e che ha fatto del servizio esclusivo la sua cifra.
Un’economia sostenibile, giusta, lungimirante, ha bisogno di regole. Ma di regole giuste: semplici, stabili, coerenti con l’obiettivo che si prefiggono. E non disegnate da chi non conosce il rischio, l’impresa o il funzionamento della tecnologia. L’idea che capitalismo e democrazia siano in rotta di collisione tout court, è una narrativa pericolosa che rischia di delegittimare il mercato e incentivare derive populiste.
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