Mentre continua a negoziare con Donald Trump, l’Unione Europea sta cercando di approfondire gli accordi commerciali con l’India e il blocco della regione Asia-Pacifico. Lo scorso 13 luglio Ursula von der Leyen ha siglato un patto politico con il presidente indonesiano Prabowo Subianto per promuovere l’intesa di libero scambio. Nei giorni scorsi la vicepresidente dell’esecutivo europeo, Teresa Ribera, è volata a Pechino per i colloqui sul clima. La visita sarà seguita dal vertice Ue-Cina del 24 luglio, sempre a Pechino.
La strategia di Bruxelles è chiara: compensare l’aumento dei dazi Usa stringendo accordi commerciali anche con i Paesi del Far East attraverso politiche di diversificazione. Non è un caso se Giorgia Meloni sarà agli inizi di settembre in Asia per un lungo tour tra Bangladesh, Vietnam, Corea, Singapore, Giappone.
«E’ in corso quello che gli esperti definiscono la più grande diversione commerciale, i dazi voluti dall’amministrazione Trump hanno innescato un rimodellamento dei rapporti», conferma a Moneta il viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Valentino Valentini.
Si tratta di un rimodellamento irreversibile?
«I dazi non sono un qualcosa di effimero, servono al riequilibrio di flussi e alla protezione di settori, ma hanno anche altri aspetti come il gettito fiscale, il reshoring, cioè il rientro dall’estero ovvero il ripristino vero e proprio di alcuni settori manifatturieri, quindi tutto lascia pensare che comunque la pressione dei dazi rimarrà».
Questo in termini globali. E per quanto riguarda l’Europa?
«Siamo nel pieno di un negoziato che vede dei rilanci costanti del presidente Trump. L’atteggiamento europeo è stato quello di non entrare nella escalation verbale, che è uno dei più grandi errori che si possano commettere, perché il rischio è quello di pagare un dividendo negativo senza ancora sapere quanto margine c’è per trattare. Tant’è che alcuni osservatori riflettono sul fatto che il presidente Trump assume posizioni massimaliste poi ripiega su posizioni più concilianti, oppure che talvolta il mercato azionario lo costringe a rivedere le sue posizioni. La mia impressione è che queste valutazioni siano anch’esse estemporanee e che l’aspetto dei dazi sia un aspetto strutturale di questa amministrazione Usa come lo è stato nel primo mandato di Trump».
Per l’Italia gli Usa restano il secondo più grande partner commerciale, e per questo è anche uno dei Paesi europei più colpiti, non è per noi uno svantaggio che la Ue tratti per conto di tutti gli Stati?
«I Paesi hanno delegato all’Unione europea la competenza per la politica commerciale esterna e quindi è l’Unione a trattare. C’è un tema di regole da rispettare. Ma, anche in termini di forza negoziale, un mercato con 450 milioni di consumatori è assai più forte rispetto a qualsiasi Paese che individualmente volesse rompere questa unità. E non credo che nessuno la romperà».
La pressione commerciale esercitata dalla Casa Bianca colpirà anche l’Asia. Si tratta però di una parte del mondo assai variegata, come cambia l’approccio rispetto a ciascun Paese?
«Abbiamo visto che le tariffe applicate da quella parte del mondo vanno dal 25 al 50%, la Cina si trova addirittura con dei dazi del 100%. L’obiettivo è anche quello di bloccare il cosiddetto transhipment, ovvero evitare che la Cina aggiri i dazi esportando con una triangolazione con altri mercati asiatici. Quindi l’impatto dei dazi sarà molto forte. Il fatto che la presidente von der Leyen abbia parlato dall’Indonesia dell’importanza del rapporto con l’Asean, il fatto che Ribera sia andata in Cina e parli dell’Asia fa pensare che la propensione verso quest’area del mondo sia più che naturale nel contesto di una ristrutturazione dei flussi commerciali».
E l’Italia a quali Paesi del Far East sta guardando in particolare?
«C’è già un piano della Farnesina per la penetrazione verso l’Asia. Il ministro Tajani è andato in India per cementare un rapporto commerciale che supera i 14 miliardi. Abbiamo creato il cosiddetto corridoio del cotone e su questo Paese dobbiamo puntare per inserirci sempre di più nelle catene del valore. Ricordiamoci che l’Italia non esporta soltanto le tre F, food, fashion, furniture (cibo, moda, arredamento, ndr), ma siamo grandi esportatori di macchinari di precisione e siamo leader nel pharma. Poi andiamo verso i Paesi del Sud Est asiatico con i quali vediamo globalmente circa 10 miliardi di esportazioni, e ciascuno di essi è diverso. Singapore ci interessa perché è sempre stato, e lo sarà sempre di più, il portale di entrata verso questa parte del mondo. Parliamo di uno dei porti più grandi del mondo, fortissimo nella logistica, nello shipping, nei servizi finanziari. Non è improbabile che ci possano essere ulteriori irrigidimenti tra Cina e Stati Uniti, e Singapore è il luogo neutro. Ed è la piazza collocata in maniera molto precisa all’interno di quello che noi chiamiamo Occidente».
In queste settimane lei ha accolto anche una delegazione di imprenditori a guida familiare della Singapore Business Federation in Italia per approfondire opportunità di collaborazione.
«La presenza di aziende a capitale familiare, o family offices, è un filone che dovremmo sfruttare, perché in queste imprese si privilegia il valore dell’azienda sul profitto, si pensa alla trasmissione tra generazioni. L’incontro tra questo capitalismo familiare costituisce un percorso che non è ancora stato esplorato e che è molto promettente».
Altri Paesi altrettanto importanti, più maturi possono essere il Giappone e la Corea?
«Con il Giappone abbiamo stabilito un accordo strategico, c’è un’affinità sempre maggiore anche dal punto di vista dei rapporti politici. La Corea è a volte concorrente, a volte partner, ma vi è una penetrazione sia tecnologica sia dei beni di lusso italiani. Il mondo si sta modificando molto rapidamente. La migliore risposta è negoziare, in maniera seria, ferma e coerente. E passare all’attacco rivolgendosi a quei mercati mondiali che sono impattati come noi e che, come noi, intendono comunque mantenere viva la propria attività commerciale. Dobbiamo considerare i Paesi affidabili, con i quali si possano creare nuove catene del valore, forse più corte, forse con maggiori ridondanze, ma che in ogni caso diano maggiore sicurezza di fronte a questo sconvolgimento inaspettato».
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