In una Unione Europea dove ormai le decisioni si prendono senza più mettere piede nei territori, la parola competitività è diventata l’etichetta di copertura di un disegno centralista che ignora chi crea lavoro, ricchezza, innovazione. Dove l’efficienza è un problema e l’autonomia locale una colpa. L’intervista all’assessore Guido Guidesi, che pubblichiamo all’interno, è solo un estratto del lungo catalogo di errori che la Commissione ha fatto e si appresta a fare. Un numero da solo basta a spiegare la portata della tempesta che potrebbe scatenarsi: 160 miliardi di euro. È il taglio nella proposta di bilancio dell’Unione previsto per le politiche di coesione, che si vedono assegnati 218 miliardi invece dei 378 dell’ultima legislatura. Una sforbiciata del 42%, accompagnata da un altro colpo di genio: la centralizzazione della gestione presso gli Stati membri. Traduzione: si svuotano le Regioni virtuose, e si consolida un meccanismo che continua a premiare chi ha fallito, penalizzando chi funziona. Guidesi ha ragione, se passa questa impostazione il futuro presidente della Lombardia potrà limitarsi a fare il direttore sanitario per conto del ministero della Salute. E niente più. Il messaggio è chiarissimo: si disarma l’autonomia, si depotenziano i motori dell’economia, si ostacolano i territori che trainano. E se a essere frenata è la Regione che produce da sola il 30% del Pil italiano, l’effetto domino è inevitabile.
Ma non è solo una questione lombarda. Il punto è politico, economico, strategico. La Commissione von der Leyen sembra aver scelto la strada del modello unico, in cui le differenze diventano un fastidio da regolare, non una ricchezza da valorizzare. Come se in Europa esistesse un’azienda tipo, una Regione tipo, un’agricoltura tipo. E qui si apre il secondo fronte: quello agricolo, che ha già riempito le piazze d’Europa, dalla Bretagna all’Emilia-Romagna, passando per le Fiandre e l’Alta Austria. La proposta di nuova Politica agricola comune (Pac), un tempo pilastro dell’Unione e orgoglio del suo progetto, oggi rischia di diventare un boomerang. Secondo le stime, solo all’Italia costerebbe 8 miliardi in sette anni. Non per errore tecnico, ma per una precisa volontà politica.
I nuovi criteri imposti da Bruxelles penalizzano proprio il nostro modello agricolo incentrato su aziende familiari, filiere corte, qualità certificata, biodiversità, territorialità. Invece si impongono vincoli surreali: lasciare il 4% dei terreni coltivabili incolti, ridurre le emissioni negli allevamenti senza dire come, e obbligare a pratiche agronomiche inventate da chi pensa che il vigneto sia un vino biologico. Nel frattempo, il grano ucraino arriva senza dazi, i pomodori marocchini a basso costo saturano i mercati, e il principio della reciprocità commerciale, che dovrebbe essere la base di ogni trattativa, diventa carta straccia. In altre parole, chi lavora secondo le regole viene punito. Chi lavora senza regole viene premiato. Un modello che non fa crescere l’Europa, la destruttura. E nel nome della famigerata transizione verde, rischia di desertificare interi territori agricoli, aumentando i costi e diminuendo la produzione.
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Non è tutto. C’è il capitolo automotive, dove l’ideologia ha superato la tecnologia in corsia di sorpasso. L’obbligo di passaggio all’elettrico, senza neutralità tecnologica, ha avuto un effetto evidente: ha consegnato il mercato europeo ai cinesi, che dominano la filiera delle batterie, vendono auto sotto costo e si muovono in un contesto normativo che in Europa sarebbe impensabile. Secondo Guidesi, fino al 40% delle imprese italiane del comparto rischia la chiusura. Perché Bruxelles ha deciso che l’innovazione va bene soltanto se targata Ue. Anche se non funziona.
E poi c’è l’energia. Dopo la crisi del gas ci si aspettava un’Europa forte, compatta, industriale. Invece si è visto un mercato diviso, impreparato, incapace di agire da blocco. Le imprese hanno pagato bollette fuori scala, mentre la Commissione si consolava con qualche bel comunicato stampa. E ora, proprio mentre il mondo si riconfigura tra dazi, blocchi e tensioni geopolitiche, si torna a parlare — in modo teorico, astratto, velleitario — di Unione dei capitali e Unione bancaria. Ma con quale credibilità? Questo giornale è fin dalla sua fondazione tra i fautori della realizzazione di questi due progetti, che davvero potrebbero rendere più solida l’Unione. E tuttavia la visione ideologica che domina a Bruxelles accende il timore che il tutto si possa tradurre in una concentrazione del credito nelle mani di pochi grandi player, rendendo ancor più difficile la vita alle Pmi italiane, spina dorsale della nostra economia. Ancora una volta si pensa ai numeri, non a chi quei numeri produce.
Abbiamo di fronte una Commissione che non ascolta, non guarda, non capisce. Che non riconosce il merito e non valorizza le differenze. Che confonde la parola unità con uniformità. E mentre la geopolitica impazzisce – con Mosca che non allenta la pressione in Ucraina, Washington che minaccia nuovi dazi, Pechino che occupa ogni spazio lasciato libero, il Medioriente che brucia – l’Europa gioca alla riforma delle regole di bilancio come se il mondo stesse aspettando i suoi Excel. Nel frattempo, l’opposizione italiana guidata da Pd e 5Stelle sceglie la linea dell’irresponsabilità: invece di affrontare il nodo della competitività, della produttività, degli investimenti, premendo sul governo laddove ritiene che la sua azione sia inefficace, si arrampica su battaglie ideologiche filo-Hamas nel tentativo di minare la solidità dell’esecutivo. Così dimostrando di aver ormai perso ogni legame con i bisogni veri dei cittadini, rendendo più agevole il processo di autodistruzione dell’Unione. Dov’è finito il sentimento di solidarietà e coesione che fu all’origine del Next Generation Eu?
Oggi non è più tempo di appelli. È tempo di scelte. E se l’Europa vuole davvero ritrovare credibilità, deve ripartire dai territori, dalle imprese, dalle comunità produttive. Perché l’unità non si costruisce cancellando le differenze, ma dando a ciascuno gli strumenti per contribuire al massimo. «Se non ci ascoltano – avverte Guidesi nell’intervista a Moneta – passeremo dalla proposta alla protesta». E stavolta al fianco degli agricoltori ci saranno gli industriali, le filiere, le Pmi, le Regioni. Non sarà solo malumore. Sarà un confronto duro. Perché l’Europa, quella pensata dai padri fondatori, non si costruisce contro i territori. Si costruisce con loro. O si demolisce.
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