Roma, abbiamo un problema. Si chiama «algoritmo criminale», felice definizione del libro dell’esperto di cybercrime Ranieri Razzante, secondo cui le mafie sono straordinariamente abili «nello sfruttare ogni progresso tecnologico per creare nuove e fruttuose attività illecite». Metaverso e intelligenza artificiale sono territori inesplorati ai più ma già «conquistati» dai boss, che hanno assoldato i migliori esperti di AI per sfruttare le criptovalute tramite piattaforme di trading dark web gestite da hacker e il gioco d’azzardo online (fonte di guadagno superiore per redditività a estorsioni e usura), agevolare il cyberlaundering offuscando la provenienza illecita dei capitali e con essi infiltrarsi nelle gare pubbliche, riuscendo ad aggiudicarsi gli appalti senza ricorrere alla corruzione ma semplicemente approfittando delle potenzialità offerte dallo spazio digitale e da una legislazione ancora acerba.
Nel rapporto della Fondazione Magna Grecia dal titolo «Le mafie nel cyberspace» di Antonio Nicaso e Walter Rauti, presentato nei mesi scorsi in Parlamento, vengono spiegate le tecniche con cui le circa 10mila aziende in mano alle mafie «utilizzano tecniche sofisticate per il riciclaggio di denaro», stimato nel mondo in 2mila miliardi di dollari, pari a oltre il 2% del Pil mondiale. Se i fiumi di contante vengono reinvestiti in prostituzione, traffico di armi e droga ma anche in attività lecite molto tradizionali come bar, ristoranti e attività ad alta circolazione di cash, vedi il settore turistico-alberghiero, i compro-oro, i tabacchini o le edicole, la nuova frontiera è «la manipolazione di gare d’appalto» e le infiltrazioni nel settore dell’energia rinnovabile, una delle tante attività apparentemente legali ma intrinsecamente criminali, con una inquietante capacità di «ibridazione» della realtà analogica e appunto dello spazio digitale, che vuol dire anche criptoasset e trading, fondi sovrani e finanza islamica.
Con tecniche come l’hawala, un sistema di movimentazione di denaro basato sulla fiducia, creato secoli fa in Cina e alternativo alle rischiose rimesse dei sistemi bancari, in cui non sono i soldi a spostarsi fisicamente, sono le garanzie. Come la solidità economica della ’ndrangheta, ormai monopolista nel traffico di sostanze stupefacenti, capace di produrre un Pil superiore a quello del Qatar. Secondo la relazione della Dia, guidata dal generale della Gdf Michele Carbone, «al modello di una mafia di vecchia generazione si è sostituita una nuova ed accattivante immagine imprenditoriale».
Per il colonnello Paolo Storoni, responsabile delle relazioni internazionali della Dia, questa è una mafia «evanescente e mimetica, che non crea allarme sociale». Con il paradosso che gli strumenti per rimettere in ciclo i proventi delle attività criminali coincidono con quelli che le aziende utilizzano per eludere il fisco rivolgendosi proprio ai boss anche grazie a giurisdizioni opache, dalla Gran Bretagna all’Olanda (vedi i Panama e i Pandora Papers) e a una legislazione particolarmente insidiosa – le cartolarizzazioni con le società Svp di diritto olandese che stanno impoverendo il nostro patrimonio immobiliare – e l’aiuto della cosiddetta borghesia mafiosa che le indagini sfiora appena. Ad agevolarla è l’intelligenza criminale che approfitta della vulnerabilità informatica delle imprese e della Pa. Il presidente dell’Anac Giuseppe Busia ne è convinto: non ci sarebbero abbastanza dirigenti capaci di saper gestire adeguatamente l’AI, con il rischio che alcune scelte, giustamente «riservate alla responsabilità pubblica», finiscano per essere «inconsapevolmente delegate a operatori privati».
Algoritmi, gare e infiltrazioni
Algoritmi, gare e infiltrazioni
Il 3 marzo scorso il Tar del Lazio si è occupato dell’aggiudicazione di un’offerta tecnica realizzata con ChatGPT. Secondo i ricorrenti era stata accolta «senza alcun approfondimento istruttorio» ma i giudici contabili hanno dato loro torto perché «non era né inattuabile né irragionevole né incompatibile» ma «congrua e credibile» e dunque insindacabile dal giudice amministrativo senza «macroscopici vizi logici o istruttori». «La recente inchiesta sulle finte fideiussioni nell’ambito degli appalti pubblici ha fatto emergere ancora più chiaramente quanto sia complessa la verifica preliminare relativamente all’affidabilità degli offerenti e anche quanto siano complicate le verifiche successive in sede di stipula delle convenzioni», spiega a Moneta Cesare Del Moro, avvocato di Legal Tech BDM, secondo cui «l’intelligenza artificiale può avere un ruolo centrale nelle attività di mistificazione portata avanti dalle mafie sia in termini di predisposizioni di falsa documentazione depositata nelle offerte di gara, che di possibili furti d’identità».
Non basta. A volte i boss usano in modo discutibile, se non illecito, l’intelligenza artificiale per «procedere a istanze di accesso per trasparenza amministrativa alle offerte delle precedenti gare per esaminare nel dettaglio le proposte dei concorrenti, mettendo in atto comportamenti di concorrenza sleale finalizzati ad individuare le modalità di offerta più idonee a garantire l’accaparramento delle commesse», conclude il legale. Tutto, o quasi, in nome della legge.
Uno dei grandi problemi è la capacità di risalire all’architettura delle più sofisticate intelligenze artificiali generative, i cui criteri decisionali mettono in imbarazzo chi prende la decisione finale. Con il termine black box si intende il massimo livello di opacità del meccanismo di questi sistemi, a volte anche gli stessi programmatori e sviluppatori non comprendono l’iter logico seguito. Troppo comodo accettarne le conclusioni ed evitare così il rischio di prevedibili ricorsi senza preoccuparsi di meccanismi potenzialmente discriminatori o fortemente distorsivi. Eppure…
Ai clan piace il mattone e il cosiddetto ciclo del cemento dietro edilizia, servizi urbani e arredo pubblico: è il classico sistema a know how tutto sommato limitato in cui è facilissimo infiltrarsi con società neonate e prestanome. Con offerte «intelligentemente» ribassate (perché lo scopo non è guadagnare ma riciclare) pur di aggiudicarsi golosi appalti e subappalti, pubblici o privati, soprattutto nel Mezzogiorno. In cambio la mafia ottiene posti di lavoro, prestigio sociale e controllo del territorio. Una volta incassato l’appalto, appare evidente la tendenza a gonfiare i costi per rifare una strada, riqualificare un quartiere o bonificare un territorio.
L’IA anche come difesa
Anche lo Stato sfrutta l’intelligenza artificiale predittiva. Per contrastare le infiltrazioni mafiose nel Pnrr lo Stato ha messo in campo la Banca Dati Nazionale Unica Antimafia e un corposo esercito di funzionari ed esperti tra Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Prefetture e Dia. Non basta più la vecchia «interdittiva antimafia», serve un algoritmo addestrato a individuare modelli contabili comuni alle imprese criminali con l’analisi incrociata – e in tempo reale – di flussi finanziari, transazioni bancarie, eventuali chat criptate, proprietà immobiliari, social network.
I principali elementi di sospetto? Come prevedono le linee guida antiriciclaggio Know Your Customer (conosci il tuo cliente) ci sono segnali come l’impennata del fatturato, un giro d’affari elevato rispetto ai dipendenti, manager troppo giovani o soci troppo vecchi, amministratori legati ad aziende fallite o radiate o partite Iva apri-chiudi. Uno di questi sistemi predittivi, alimentato costantemente con dati finanziari di aziende italiane, è stato sviluppato da un gruppo di ricerca dell’Università di Padova e commercializzato su licenza da un’impresa spin-off dell’università, Rozès Intelligence, e sarebbe in grado di identificare «in termini di rischio, senza certezza né prova giuridica, la probabilità che un’azienda sia legata a una mafia», sostiene il professor Antonio Parbonetti, prorettore vicario dell’Ateneo veneto e docente del Dipartimento di Scienze economiche e aziendali Marco Fanno. Gian Maria Campedelli, criminologo specializzato in scienze computazionali e research scientist alla Fondazione Bruno Kessler, assieme a Gianmarco Daniele e Marco Le Moglie, professori associati della Statale e della Cattolica di Milano, ne ha realizzato uno che grazie al machine-learning prevederebbe le infiltrazioni mafiose prima che diventino evidenti nei Comuni ad alto rischio.
Ma può la decisione di una macchina decidere il destino di un’azienda o di una persona, anche in presenza di potenziali «falsi positivi»? La mancata «trasparenza algoritmica» invocata da Busia viola l’obbligo di motivazione dei provvedimenti? Il rischio del profiling e della mappatura dei potenziali criminali con criteri standardizzati alla Minority Report – che siano persone fisiche o giuridiche – rappresenta un punto debole sotto molteplici profili, dalla privacy alla trasparenza, dal diritto alla difesa al giusto processo: è giusto sacrificare la giustizia penale alla black box decision dell’«oracolo algoritmico», come si interroga da tempo uno studioso come Vittorio Manes?
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