Il comunismo è morto, lo ha ucciso un’app sullo smartphone. La conferma è nell’acquisto di un libretto di Mao su una bancarella di Guangxi, pagato con il clic di una moneta virtuale. Il Grande Timoniere probabilmente si rivolta nella tomba, di sicuro ad agitarsi c’è il presidente degli Stati Uniti: nessuno dei due può capire la Cina di oggi. È questione di prospettive: il benessere del popolo attraverso l’allineamento economico del singolo (e non viceversa, che poi è il sogno americano), visto che perfino gli ambulanti di cianfrusaglie devono dotarsi di un QrCode. Tutto è tracciato, la Cina oggi è una dittatura ragionata (che non vuol dire ragionevole): ma siamo sicuri che Donald Trump non invidi un po’ Xi Jaoping?
Ce lo spiega Frank (nome d’arte made in Usa), la guida che ci scorta nell’assalto di venditori armati di richiami per le anatre: «I miei genitori hanno vissuto la controrivoluzione e hanno sofferto la fame. Guardateci adesso: lavoriamo, possiamo mantenere le nostre famiglie, possiamo viaggiare, studiare, curarci. Siamo felici, il comunismo è morto». La guerra dei dazi, insomma, ha un’altra faccia della medaglia.
Frank vive a Guilin, una città caotica in riva al fiume Lijiang. Tre ore di bullet train a oltre 300 km l’ora c’è Shenzhen, che 50 anni fa era un piccolo villaggio di pescatori, mentre adesso è diventata la capitale della tecnologia. La tana del Dragone. Tra decine e decine di aziende, centinaia di palazzi verticali dove servirebbe uno stadio per fare un’assemblea di condominio, un grattacielo alto 600 metri, 18 milioni di abitanti, c’è anche la sede di Huawei, il frutto più splendente della contro-controrivoluzione che cominciò grazie a Deng Xiaoping (Frank lo ricorda con gratitudine). Il Nemico Uno di The Donald, fin dal suo primo mandato, è l’azienda più innovativa al mondo che lui avrebbe voluto distruggere, chiudendo i rubinetti di tutto ciò che fosse tecnologia americana. Huawei, in effetti, ha barcollato, ma poi ai dipendenti arrivò un messaggio praticamente confuciano: «Saranno anni difficili, di lavoro duro, ma siate certi che ce la faremo». Eccoli qui.
Il risultato è nei numeri: nel 2024, il settore consumer ha generato 339 miliardi di Renminbi di fatturato (circa 40 miliardi di euro), con un aumento del 38,3% rispetto all’anno precedente. L’azienda, caduta in disgrazia, ha riconquistato la leadership nel mercato cinese degli smartphone con una quota del 17%, e nel frattempo ha allargato il mercato globale dei wearable spedendo oltre 182 milioni di smartwatch a più di 540 milioni di utenti. Mondo tranne l’America, perché – ci tengono a dire – di lei non c’è bisogno, semmai è il contrario. Tanto che al caos quotidiano che arriva dallo Studio Ovale, il Partito ha risposto organizzando una riunione con i principali manager del Paese dal titolo «La posizione della Cina riguardo ad alcune preoccupazioni sulle relazione commerciali con gli Stati Uniti». Solo preoccupazioni e alcune, di sicuro a nessuno si è scomposto il ciuffo. E comunque valeva come una minaccia. Economica.
La conferma arriva dalla visita a Shenzheng e Dongguann, là dove l’innovazione di Huawei è due generazioni avanti a tutti. Rico Zheng, presidente del settore Wearable e Salute, racconta come la nuova tecnologia TrueSense aiuterà le persone a vivere più a lungo («vogliamo portare a 79 anni entro il 2030 la vita media dei cittadini», cioè il tutto diviso circa 1 miliardo e mezzo). E aiuterà pure a vivere meglio, con un semplice clic sull’orologio. Zheng parla di sensori cutanei, ottici e ambientali, di misurazioni in 10 secondi che prevengono malattie cardiologiche e respiratorie, tutto quello che arriva dagli studi in un Health Lab che sembra un centro sportivo professionistico. Racconta di un futuro molto prossimo in cui anche il diabete sarà combattuto con un dispositivo al polso, «e per arrivarci siamo aperti a lavorare con tutti». Sul serio.
Nel frattempo la nuova rivoluzione è la mobilità elettrica: Xi ha deciso così, dal 2030 si viaggia con la spina. E così si fa, senza discussioni. Lo store di Huawei mostra dunque orgoglioso i sensori di guida autonoma (e non solo) dei 4 modelli prodotti con altre aziende cinesi. E nel frattempo, tra un pagamento e l’altro via WeChat o Alibaba, tra milioni di telecamere («se succede qualcosa, la polizia arriva in 5 minuti» dice orgoglioso un accompagnatore ignaro di questioni di privacy), in mezzo a una ricchezza imposta secondo modelli quinquennali, Huawei prosegue la missione nel suo maestoso Campus, 140 ettari di villaggio che rappresenta l’amata cultura del Vecchio Continente. Non è Disneyland, ma una ricostruzione in veri mattoni di città come Heidelberg, Bruges, Granada, Oxford, Tallinn, Bologna, Verona (perché sì, anche i dipendenti cinesi si innamorano). C’è un treno interno e l’incredibile biblioteca per i 30mila dipendenti del luogo – un mix di fiero sguardo cinese e look occidentale – eretta come replica di quella nazionale di Francia di Parigi.
Costruito in soli due anni, il Campus è il laboratorio del futuro: si lavora all’intelligenza artificiale, alla trasmissione ottica, al 6G, alla fantascienza, con un patrimonio di 150mila brevetti e grazie a una spesa in ricerca e sviluppo di circa 200 miliardi di euro (solo nel 2024). Dalle 8 alle 18 con una pausa di due ore. E lì dentro, in pratica, c’è la risposta che forse cerchiamo. Perché la Cina sia sempre in bilico tra magnificenza e spietatezza e perché guardi l’Occidente con superiorità dopo che l’Occidente gli ha messo in mano gli strumenti per farlo. E perché Huawei abbia oggi 47mila negozi in tutto il mondo, un sistema operativo proprio costruito dal nulla e dei chip che cominciano sempre più a vestire il 5G che Trump gli aveva negato. «Lavoreremo duro ma ce la faremo» dicevano, e questo adesso lo sa anche Frank: «Taiwan? Da tanto tempo che si parla della riunificazione: se Xi ci riuscirà, sarà il nostro eroe». Diciamolo: la Cina non è un mondo perfetto e nemmeno migliore. Ma forse, più che combatterlo, dovremmo cominciare a capirlo
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