«Ricordati, Amazon è schiavo dei clienti e noi schiavi di Amazon», scrive un venditore nella sezione “discussioni” di Amazon Seller Europe, la piattaforma europea degli imprenditori che commerciano sul sito di Jeff Bezos. Per moltissime piccole realtà italiane vendere attraverso il gigante di Seattle è una scelta obbligata per avere visibilità online. Anche a costo di pagare a caro prezzo le sue pesanti politiche di reso.
Rispedire al mittente un articolo è molto semplice. Spesso si può fare rapidamente, senza bisogno di stampare etichette né confezionare il prodotto in modo particolare: basta depositarlo in un punto di ritiro, o attendere il corriere a domicilio.
Da quel momento inizia per chi vende un travaglio che porta a una perdita economica secca e al ritorno – quando va bene – di una merce danneggiata e non più vendibile.
Eppure i numeri collezionati dal colosso dell’e-commerce sono impressionanti. Pochi giorni fa si è chiuso il Prime Day, che quest’anno «è stato il più grande di sempre – fa sapere l’azienda – , con record di vendite e il maggior numero di prodotti venduti rispetto a qualsiasi precedente edizione dell’evento». Ma se da un lato Amazon offre la preziosa opportunità anche alle piccole realtà di esporsi in una vetrina grande e frequentata, dall’altra impone regole sul diritto di recesso che infliggono perdite gravi a chi vende.
Le commissioni per segnalazione sono una delle principali voci di costo che i venditori devono pagare al colosso per ogni articolo venduto. Consistono nella percentuale del prezzo di vendita che la multinazionale trattiene come compenso per aver reso possibile la transazione. L’importo varia a seconda della categoria del prodotto. In media si assestano tra il 15% e il 20%.
La piattaforma – si apprende dal sito – rimborsa al venditore la commissione trattenendo il 20% della stessa, fino a un massimo di 5 euro per ogni articolo restituito. «Se rimborsi a un cliente 10 euro ossia il prezzo totale di un articolo in una categoria con una commissione del 15%, la trattenuta sui rimborsi sarà pari a 30 centesimi», si legge.
«La commissione di gestione dei rimborsi – spiega a Moneta Amazon stessa – riflette costi operativi associati all’elaborazione dei resi, che comportano logistica complessa, servizio clienti e misure di controllo qualità per garantire un’esperienza fluida sia ai venditori sia ai clienti. Questa struttura tariffaria ci aiuta a mantenere l’elevato livello di servizio che sia i partner di vendita sia i clienti si aspettano da noi».
La semplicità e la gratuità dei resi hanno però spalancato le porte ai furbetti: clienti che usano un prodotto per giorni prima di restituirlo, o che rimandano indietro articoli usati, danneggiati o addirittura diversi da quelli ricevuti.
«Nell’ultimo mese abbiamo ricevuto 190 resi su circa 3.000 ordini su Amazon», racconta uno dei fondatori di una piccola azienda italiana di prodotti per il corpo raggiunta da Moneta. «Una percentuale apparentemente contenuta – intorno al 6% – ma che, se analizzata a fondo, rivela un impatto economico importante». Il titolare dell’azienda ci chiede di non essere citato: «Conoscendo i controlli della piattaforma preferiamo mantenerci anonimi», avverte.
«Ogni reso genera per noi una perdita diretta composta da diverse voci: il costo del prodotto, che non è recuperabile, la commissione del 15% trattenuta, che Amazon rimborsa solo parzialmente, il costo di logistica (2,00 – 2,80 euro a pezzo, anche per prodotti da 11-12 euro), la commissione fissa per reso (0,52 euro a unità), l’Iva su quanto non è stato venduto, che resta comunque a nostro carico. Questo significa che ogni reso può costarci tra i 6 e gli 8 euro netti, a fronte di un prezzo di vendita medio di 11-12 euro». Per non essere oscurati dai grandi brand e avere uno spazio di visibilità online «questo è il prezzo da pagare per una realtà piccola e cresciuta da zero».
Un’ azienda di maglieria e intimo made in Italy ci spiega che la politica dei resi di Amazon è comoda per il venditore, perché la gestione è interamente demandata alla sito, ma il rovescio della medaglia è che «le percentuali di reso sono alte, intorno al 15-18% per il mercato italiano». «Quando i clienti restituiscono le nostre calze, capita frequentemente che non siano più vendibili».
La sensazione diffusa tra i piccoli venditori è che il marketplace sia da alcuni disonesti percepito come un servizio di noleggio gratuito: gli utenti ordinano, usano il prodotto durante la prova garantita e poi lo restituiscono.
«Sto avendo una quantità di resi assurda (calzature bambini). – scrive un mese fa una commerciante sul forum di Amazon seller -. La gente non può acquistare le scarpe solo per provarle. Tutto questo viene fatto perché non pagano nulla».
«Non se ne può più! – aggiunge un altro- . Stiamo ricevendo una marea di roba, lavata, senza etichetta, indossata, rovinata, un’ indecenza».
La politica a totale tutela del consumatore è stata una delle chiavi del successo di Amazon nel mondo. Il cliente è invogliato a comprare proprio per la facilità e la sicurezza con cui la piattaforma gli consente di cambiare idea. L’azienda di Bezos a giugno di quest’anno ha comunque annunciato una riduzione dei tempi di reso per alcune categorie merceologiche, come elettronica, libri, giocattoli, articoli per la casa e fai da te. Dal 23 giugno, per questi prodotti, il cliente può attivare la procedura di restituzione entro 14 giorni dalla ricezione, e non più entro 30.
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