Bisogna tornare al 26 luglio 2012, ovvero a quando il gip Patrizia Todisco del Tribunale di Taranto notifica il sequestro preventivo senza facoltà di uso dei sei reparti dell’area a caldo con contestuale arresto dei vertici aziendali, per fissare il momento esatto in cui ha inizio il dramma Ilva. Il gip motiva la sua decisione con il rischio di inquinamento probatorio e con la necessità di sottoporre a sequestro l’intera struttura per garantire il rispetto degli accordi e la cessazione della produzione in spregio della salute pubblica: il reato ipotizzato è «associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati ambientali plurimi in violazione del Testo unico sull’ambiente». In sostanza, il magistrato teme che senza il sequestro degli impianti, è possibile che vengano alterate o distrutte le prove necessarie per l’accertamento delle responsabilità penali.
A quel tempo gli impianti sono di proprietà della famiglia Riva (che ne detiene il controllo dalla privatizzazione avvenuta nel 1995). Il governo in carica è l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti e i ministri che si occupano della crisi sono Corrado Passera, Sviluppo economico, e Corrado Clini, Ambiente. La gestione della crisi secondo Monti va basata su un’idea: gli imprenditori responsabili devono rimediare al danno ambientale, a fronte però di una nuova Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata direttamente da una task force ministeriale.
2013 – primo commissariamento
Il governo Monti si dimette e gli succede un esecutivo di “larghe intese” guidato da Enrico Letta (28 aprile 2013–22 febbraio 2014). I ministri in campo sono Flavio Zanonato allo Sviluppo economico e Andrea Orlando all’Ambiente. Il piano deciso da Monti prosegue ma poi, a giugno, le tensioni tra Ilva e la magistratura portano al maxi-sequestro da 8,1 miliardi (successivamente annullato in Cassazione). Il governo Letta decide così di commissariare l’Ilva, indicando per la carica Enrico Bondi, l’uomo della Parmalat, che ha sistemato il disastro combinato da Callisto Tanzi ma per il quale è stato profumatamente pagato (circa 45 milioni il suo onorario). Tuttavia, dal momento che l’azienda non può teoricamente essere commissariata perché non presenta elementi di insolvenza, viene messo a punto un escamotage: i proprietari restano, ma la gestione è diretta dallo Stato per portare a termine le opere di bonifica e riconsegnarla, così depurata dai miasmi giudicati dannosi, ai proprietari al termine del percorso. Sotto la guida di Bondi, l’Ilva impegna somme enormi per avviare il processo di depurazione, con un limite produttivo a 6 milioni di tonnellate e senza poter operare tagli alle maestranze. Un disastro per il bilancio.
2014 – Il biennio di Renzi
Nel momento cruciale del risanamento, il governo Letta cade e tocca a Matteo Renzi (22 febbraio 2014–7 dicembre 2016) prendere le redini del progetto: al ministero dello Sviluppo economico è nominata Federica Guidi e all’Ambiente Gianluca Galletti. Bondi, rivelatosi poco adatto ai temi industriali-giudiziari nel confronto con i magistrati inquirenti, non viene confermato: è sostituito con Piero Gnudi.
2015 – Conti a picco e Legge Marzano
I conti vanno a picco e nel gennaio 2015 l’Ilva viene sottoposta alla legge Marzano, e viene affidata a tre commissari: a fianco di Gnudi arrivano Corrado Carrubba ed Enrico Laghi. Se prima l’obiettivo dell’esecutivo Renzi era la sola cessione dell’azienda, ora – complice anche il super consulente Andrea Guerra – viene introdotta l’idea del revamping degli impianti e del risanamento per vendere a un gruppo industriale diverso dai Riva a un prezzo che consenta di recuperare parte di quanto speso fino a quel momento.
2016- Via al primo bando di vendita
Il 5 gennaio 2016 è pubblico il bando per le manifestazioni di interesse a rilevare l’azienda. Un processo che durerà anni, complice anche l’allungamento delle tempistiche di nulla osta dall’Antitrust europea. Nel frattempo, Guidi lascia il posto a Carlo Calenda che resta in carica anche con l’esecutivo Gentiloni. ArcelorMittal vince la gara (prevale su Jindal, Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cdp), ma l’aggiudicazione arriva solo dall’esecutivo successivo: il primo governo Conte.
2018 – Arriva Arcel Mittal
Giuseppe Conte riceve dal Quirinale l’incarico di premier, ministro dello Sviluppo economico è Luigi Di Maio, all’Ambiente va Sergio Costa. In una prima fase la gestione della vicenda Ilva appare estremamente confusa. La base del Movimento 5 Stelle punta alla chiusura del siderurgico per ragioni ambientali. Dopo un progressivo innalzamento delle richieste in termini di tecnologie e investimenti ambientali, si arriva a un accordo con ArcelorMittal: il contratto viene firmato in pieno accordo con le parti sociali. Sembra la svolta. Ma il piano di rilancio non decolla. E quando i 5Stelle decidono con un gesto di grave irresponsabilità di cancellare l’immunità penale per gli amministratori fino al completamento delle opere di bonifica (il decreto era stato fortemente voluto dal governo Monti per consentire all’azienda di continuare a funzionare nonostante gli impegni ambientali) ArcelorMittal decide di abbandonare Taranto, rescindendo il contratto nel novembre 2019. Più avanti il gruppo indiano avrà modo di deconsolidare Ilva dando vita a ArcelorMittal Italy con a capo l’amministratore delegato Lucia Morselli.
2019 – con il Conte 2 entra Invitalia
Si insedia il governo Conte Bis con Stefano Patuanelli allo Sviluppo economico, mentre Costa resta all’Ambiente. Si lavora per una nuova fase. Arcelor resta ma affiancata da Invitalia che si prepara a entrare nel capitale del gruppo siderurgico, con un aumento di capitale da 400 milioni.
2021 – nasce Acciaierie d’Italia
Si insedia Mario Draghi al governo, ministro dello Sviluppo economico è Giancarlo Giorgetti, mentre all’Ambiente c’è Vittorio Colao. C’è una frenata sull’ingresso di Invitalia a causa di una sentenza del Tar diffusa nel giorno del giuramento. Sentenza che dichiara legittima, ad un anno di distanza, l’ordinanza del sindaco di Taranto sulla chiusura dell’area a caldo del siderurgico. Poi nasce ufficialmente Acciaierie d’Italia. L’accordo prevede che il 62% del capitale della nuova società sia di ArcelorMittal, mentre il 38% sia di Invitalia. I diritti di voto nel cda saranno suddivisi al 50%, mentre ArcelorMittal avrà il potere di nominare l’amministratore delegato e Invitalia il presidente (Franco Bernabè). Ma i soci iniziano presto a non essere allineati su progetti e sviluppo. Ciò genera immobilismo.
2022 – Parte il Governo Meloni
A ottobre parte il governo Meloni con Adolfo Urso al Mimit e Gilberto Pichetto Fratin all’Ambiente. Il governo eredita una situazione fortemente compromessa. Sono mesi di agonia, i debiti lievitano, la produzione è ridotta a 3 milioni di tonnellate e continuano gli scontri tra Invitalia e Arcelor Mittal sulla gestione Morselli che sembra volta a far chiudere il siderurgico e non risponde alle sollecitazioni del governo. Dei piani di decarbonizzazione concordati nemmeno l’ombra.
2024- il secondo commissariamento
I bilanci dell’ex Ilva finiscono nel mirino della Procura di Milano. L’insolvenza è vicina. Morselli è indagata per associazione a delinquere. Dopo alcune resistenze il ministro Urso annuncia il commissariamento finalizzato a ri-privatizzare l’ex Ilva. Si prepara una nuova gara.
2025- Baku e l’Afo 1 compromesso
Dopo mesi di valutazioni e di presunti interessati scendono in campo ufficialmente Jindal, Baku Steel e un fondo americano. La gara viene assegnata in esclusiva a Baku Steel, ma l’incidente all’Altoforno 1 che diventa motivo dell’ennesimo provvedimento dei magistrati tarantini – siamo ai giorni nostri – irrompe come un macigno nella trattativa con Baku, partono gli esuberi e lo Stato si prepara a un salvataggio pubblico-privato (se Baku resta) da iniziali 5 miliardi per arrivare, secondo le prime stime, a una spesa complessiva di 13 miliardi.
Morale, quello che fino al 2012 era un gruppo in attivo e di rilevanza europea nel settore dell’acciaio, in 13 anni ha bruciato ricchezza per non meno di 50 miliardi (tra Pil perduto, cassa integrazione, prestiti vari e stanziamenti pubblici) e oggi si trova a un passo dal fallimento. Con buona pace dei diecimila dipendenti che, nonostante il crollo di ordini e produzione, continuano a percepire la busta paga direttamente dalla società o dallo Stato sotto forma di sostegno pubblic
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