Oltre al danno, la beffa. Dopo essersi legata mani e piedi ai gravami dell’agenda ambientalista, la Germania, prima economia dell’Ue, rischia di non raggiungere gli obiettivi climatici per il 2040. Il paradosso emerge da un rapporto sulla protezione del clima che nelle prossime settima e verrà sottoposto all’approvazione del gabinetto del cancelliere Friedrich Merz. Secondo il documento, le misure di protezione del clima concordate finora non sarebbero sufficienti a traguardare i propositi fissati per il 2040 e il 2045.
E qui emerge l’ulteriore contraddizione. Invece di ragionare sull’effettiva fattibilità di una transizione imposta a suon di diktat, da Berlino chiedono un’ulteriore accelerata sul green. La Germania punta infatti a raggiungere la neutralità climatica entro il 2045, il che significa che non emetterà più gas serra di quanti ne possa stoccare. Per raggiungere questo obiettivo, il Paese deve avviare “nuove misure di trasformazione” a medio e lungo termine, si legge nel documento di oltre 450 pagine redatto dal ministero Federale per la Protezione del Clima.
Il Paese risulta invece temporaneamente allineato sugli obiettivi intermedi al 2030. “Se le misure di protezione del clima concordate finora saranno attuate, i totali annuali di emissioni stabiliti dalla legge sulla protezione del clima potranno essere rispettati tra il 2021 e il 2030”, si legge. Tuttavia, questo richiede che le misure concordate siano attuate in modo coerente e che vengano adottate misure correttive in caso di ulteriori scostamenti, ad esempio a causa di un forte aumento della domanda di energia. Il rapporto tedesco individua inoltre problemi nei settori dell’edilizia e dei trasporti che, considerati separatamente, non riusciranno a raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas serra nei prossimi anni fino al 2030. Secondo il documento, il “punto di partenza più efficace” per una riduzione significativa nel settore dei trasporti è accelerare il passaggio dai motori a combustione interna ai motori elettrici. L’apoteosi dell’autolesionismo.
Proprio la corsa all’elettrico e la crociata ai motori tradizionali hanno infatti affossato interi settori industriali in Germania, con pesanti ripercussioni su fatturati e posti di lavoro. Nei mesi scorsi Bosch aveva annunciato tagli fino a 1.100 posti nel solo stabilimento di Reutlingen, con una riduzione complessiva prevista di 5.500 lavoratori nella divisione automotive. Audi aveva prospettato il taglio di circa 7.500 posti in amministrazione e sviluppo entro il 2029. Secondo le stime più affidabili, la transizione all’auto elettrica potrebbe costare quasi 200mila posti di lavoro entro il 2035. La catena dei fornitori, che alimenta da sempre la potenza del settore tedesco, è in affanno e molte aziende hanno già chiuso i battenti.
Per non parlare dei danni accusati dal settore tedesco dell’acciaio. ArcelorMittal ha cancellato progetti miliardari per la conversione green degli impianti di Bremen ed Eisenhüttenstadt. E Thyssenkrupp, il gigante dell’acciaio, ha annunciato un drastico piano di ristrutturazione che prevede l’eliminazione di 11mila posti di lavoro, quasi il 40% della sua forza lavoro. La motivazione? Costi energetici insostenibili, incertezze sulla fornitura elettrica e un mercato divenuto totalmente ingestibile. In totale, tra metalmeccanica e comparto elettronico, dal 2020 si stima che la Germania abbia perso oltre 300mila posti di lavoro nel solo settore industriale.
Un costo sociale altissimo, che tuttavia non sembra aver indotto il governo tedesco a un ripensamento sulle modalità di messa a terra della transizione. Anzi, la preoccupazione dei burocrati di Berlino è che i settori dell’edilizia e dei trasporti possano rappresentare un ostacolo al rispetto dei requisiti del regolamento europeo sulla protezione del clima. Avanti tutta, allora, con l’ossessione verde. Il poi, lo pagano i cittadini con tanto di interessi.
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