Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers gettava la spugna e ricorreva al Chapter 11, dicendo addio alla finanza globale e scatenando la nuova Grande Recessione, la crisi peggiore dalla Depressione del 1929. Il fallimento, divenuto un caso da studiare nei libri di scuola, tormenta ancora i sonni di Wall Street e delle autorità statunitensi e non solo. Autorità che hanno dovuto rivedere nel loro vocabolario la definizione too big to fail, “troppo grande per fallire”, riferita alle banche sistemiche e dunque da tenere in piedi a qualsiasi costo perché il crac Lehman ha dimostrato che anche i giganti possono avere piedi d’argilla. Di certo, dal collasso dei subprime un’ondata di regole si è abbattuta sulle banche; nonostante ciò, in questi anni ci sono stati vari “momenti Lehman” che hanno fatto tremare, come il salvataggio di Credit Suisse e il fallimento di Silicon Valley Bank, che hanno riacceso i timori di un nuovo shock dalle conseguenze imprevedibili.
Ma che fine hanno fatto i protagonisti di quell’epoca, per mesi alla ribalta delle pagine più nere delle cronache finanziarie? Il 6 marzo 2012, 1.268 giorni dopo il crac, Lehman Brothers Holdings, quanto restava dalla liquidazione del colosso bancario fallito durante la crisi del 2008, è uscita dal Chapter 11, ovvero dall’amministrazione controllata da 639 miliardi di dollari. La società ha cominciato a rimborsare i creditori per circa 65 miliardi di dollari, a fronte di richieste per oltre 300 miliardi, e poi ha continuato a liquidare gli asset.
Bear Stearns è stata venduta Jp Morgan e la compagnia assicurativa A.I.G. è stata nazionalizzata e poi ristrutturata. I veri ingranaggi del mercato immobiliare Usa erano, però, Fannie Mae e Freddie Mac che si occupavano essenzialmente dell’acquisto e del riconfezionamento di mutui e prestiti per la casa: sono entrambe fallite quando è scoppiata la Grande Crisi e poi sono state messe sotto tutela e controllate dal governo. Ora l’amministrazione americana vorrebbe nuovamente privatizzarle. «Sto prendendo in seria considerazione» l’idea di privatizzare Fannie Mae e Freddie Mac, ha scritto lo scorso 21 maggio Donald Trump sul suo social Truth riferendosi ai due colossi del credito ipotecario americano. «Parlerò con il segretario al Tesoro Scott Bessent e quello del commercio Howard Lutnick e prenderò una decisione nel futuro a breve. Fannie Mae e Freddie Mac stanno facendo molto e il momento sembra quello buono». Una mossa del genere porrebbe fine a 17 anni di tutela del governo federale sulle due società, che hanno svolto un ruolo centrale nel sistema di finanziamento immobiliare americano fornendo liquidità al mercato dei mutui.
Alcuni esperti avvertono che la separazione di Fannie Mae e Freddie Mac dal controllo governativo potrebbe provocare un aumento dei tassi sui mutui e limitare l’accesso a prodotti ipotecari popolari, come il mutuo a tasso fisso trentennale, in un momento in cui l’accessibilità economica della casa rimane fuori dalla portata di molti americani. Nelle scorse settimane i Democratici del Senato hanno inviato una lettera a William Pulte, a capo della Federal Housing Finance Agency, chiedendogli di sospendere i tentativi di quotare le due società, citando il rischio di un aumento dei costi per gli acquirenti di case. Ma c’è anche chi attende con ansia il ritorno di Fannie e Freddie sui mercati azionari. Nessuno si è espresso più apertamente dell’investitore miliardario Bill Ackman, il cui hedge fund, Pershing Square Capital, è uno dei maggiori detentori di azioni ordinarie di Fannie e Freddie.
C’è un altro brand rimasto tristemente noto nella crisi del 2008 che sta cercando di chiudere definitivamente quelle pagine della sua storia. Royal Bank of Scotland era la più grande banca al mondo per patrimonio. Aveva un bilancio più grande dell’economia del Regno Unito all’epoca. Quando la banca fu colpita dalla crisi di liquidità, il governo ha ritenuto di non avere altra scelta se non quella di intervenire per salvare l’economia dal collasso. Nel febbraio 2020 Rbs ha abbandonato il nome ultracentenario (l’istituto è stato fondato nel 1727) ed è stata ribattezzata NatWest Group. La decisione rientrava nella strategia di risanamento. Nella primavera del 2022 il governo britannico ha poi ceduto il controllo della banca NatWest, di cui deteneva ancora più della metà del capitale, riducendo la propria partecipazione dal 50,6% al 48,1 per cento. «Per la prima volta dalla crisi finanziaria lo Stato non è più in maggioranza, dopo la vendita di una quota del capitale di 1,2 miliardi di sterline», riportava una nota diffusa dal ministero del Tesoro.
Il governo laburista dell’epoca aveva speso 45 miliardi di sterline per acquisire l’84,4% del capitale di NatWest. I successivi esecutivi conservatori, dal 2010 hanno ceduto quote sempre più consistenti. Il processo di uscita è stato lento, e alla fine i contribuenti hanno comunque subito una perdita: lo Stato non ha mai recuperato quanto investito per salvare l’economia di allora. Oggi il management dispone di nuovo capitale, sta valutando acquisizioni e ha già fatto un’offerta per le attività del Banco Santander nel Regno Unito. Secondo quanto riportato dal Financial Times, la trattativa per l’acquisizione è però sfumata. A frenare la cessione è stato, con tutta probabilità, il recente rafforzamento patrimoniale del Santander, che ha raccolto 7 miliardi di euro vendendo una quota delle attività in Polonia a Erste Bank. Ma l’obiettivo di NatWest, l’ex Rbs, resta: rafforzarsi nel settore retail e business banking in UK attraverso un’operazione che consenta di ampliare notevolmente il volume degli attiv
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