Volata finale verso l’assemblea del 16 giugno di Mediobanca, dove i soci saranno chiamati a esprimersi sul via libera allo scambio azionario tra il 13,2% di Generali detenuto da Piazzetta Cuccia e la quota di controllo di Banca Generali in portafoglio al Leone di Trieste. Il ceo di Mediobanca, Alberto Nagel, salvo clamorosi colpi di scena, riuscirà probabilmente a incassare il benestare degli azionisti. Ma se riuscirà a prevalere, lo farà senza un margine significativo. Questo la dice lunga sul fatto che l’operazione è controversa, con un socio di peso come Francesco Gaetano Caltagirone (oggi dispone del 10%) che aveva chiesto il rinvio dell’assemblea denunciando una carenza di informazioni per valutare la bontà dello scambio azionario. Un aspetto, quest’ultimo, che lo ha portato a invocare l’intervento della Consob.
Quanto all’operazione in sé, l’impianto è senza dubbio industrialmente vantaggioso per Mediobanca, lo è molto meno per Generali che in cambio di un pezzo pregiato del patrimonio si ritroverà in pancia azioni proprie di cui non potrà disporre per almeno un anno. Il vero scoglio, per Nagel, sarà dunque l’assemblea delle Generali, che molto probabilmente verrà sollecitata da una parte rilevante di soci di Generali. Sicché il blitz di Nagel, che attraverso l’operazione con Banca Generali punta a smarcarsi dall’abbraccio di Mps il cui obiettivo è la creazione del terzo polo bancario attraverso l’Ops su Mediobanca, in un certo senso sembra segnato indipendentemente dall’esito dell’assemblea di lunedì 16. E se per caso il ceo di Siena, Luigi Lovaglio, dovesse avere successo, questo potrebbe mettere la parola fine al suo regno di quasi 17 anni sulla banca d’affari milanese.
Gli schieramenti
Venendo però all’assemblea del 16, entrambi gli schieramenti potrebbero sfoderare all’ultimo fuochi d’artificio. L’affluenza sarà molto elevata, anche superiore all’80 per cento del capitale. Ciò significa che per portare a casa la vittoria finale servirà almeno il 40% del capitale a proprio favore. Nagel ha incassato il via libera dei proxy advisor Iss e Glass Lewis, che molto probabilmente sposteranno dalla sua parte la fetta maggioritaria del 40% degli investitori istituzionali (il capitale di Piazzetta Cuccia è per metà in mano a fondi e piccoli investitori). Nel suo angolo Nagel avrà anche il Patto di consultazione (che vede tra i soci di spicco la famiglia Doris) che peserà per quasi l’11% (in tutto vale l’11,8%) nonostante le defezioni dei dissenzienti Beniamino Gavio e Romano Minozzi. Mercoledì 11 i consigli d’amministrazione di Banca Mediolanum e Mediolanum Vita – entrambe aderenti al patto con quasi il 3,5% – hanno deliberato di votare a favore dell’Ops, nonostante l’eventuale realtà integrata diverrebbe un competitor molto tosto per la stessa Mediolanum. Sembra invece tramontata, dopo l’anticipazione apparsa su il Giornale, l’operazione mai smentita con la quale Nagel avrebbe voluto cedere in prestito un 3% di azioni proprie a un soggetto amico.
Dalla parte opposta della barricata, invece, c’è Caltagirone che ha arrotondato la sua posizione a quasi il 10 per cento. Un balzo che, secondo indiscrezioni di mercato, deriverebbe da un prestito titoli superiore al 2% da parte di Unicredit, con l’ad Andrea Orcel che avrebbe deciso di non prendere parte alla contesa e di mettere a disposizione del miglior offerente la sua quota (non ancora rivelata al mercato): da segnalare che in occasione del rinnovo dei vertici delle Generali, Unicredit ha espresso il suo voto a favore della lista Caltagirone. Senza essersi esposte ufficialmente, le casse previdenziali Enpam, Enasarco e Inarcassa (titolari di circa il 6% della merchant bank) dovrebbero però essere orientate a votare contro l’Ops su Banca Generali. Va verso l’astensione, invece, la Delfin – la cassaforte degli eredi Del Vecchio guidata da Francesco Milleri – che ha in portafoglio il 19,8% di Piazzetta Cuccia, l’astensione in questo caso però vale quanto un voto contrario. Se sul voto di Delfin vi fosse ancora qualche dubbio, questo è stato spazzato via dopo l’esposto depositato in Tribunale circa un presunto concerto fra i due maggiori soci dell’istituto (Caltagirone e Delfin) che peraltro i pm hanno da subito impilato tra i Modello 45, ossia nel registro degli «atti non costituenti notizia di reato». Un’iniziativa per certi versi simile a quella intrapresa nel 2022 davanti a Ivass e Consob – avente come sfondo il rinnovo del cda di Generali – che si era conclusa in una bolla di sapone, con le autorità che avevano respinto l’ipotesi non ravvisando elementi sufficienti per intervenire. Per tornare alla conta dei voti, la famiglia Benetton, che vanta il 2,2%, sembra orientata verso l’astensione o, in alternativa, al voto contrario, anche in considerazione del fatto che l’operazione è a vantaggio della sola Mediobanca e a scapito delle Generali, di cui posseggono il 4,8%.
Così stante le cose, a fare da ago della bilancia, quindi, potrebbero essere due grandi fondi d’investimento americani: Blackrock, che controlla il 3,5%, e Vanguard, accreditato di una quota tra il 2,7 e il 2,8 per cento. Entrambi non si sono ancora espressi ufficialmente, ma qualche indizio c’è. Per esempio, Vanguard si era espresso a favore dell’Ops di Mps su Mediobanca e quindi potrebbe allinearsi alle posizioni di Caltagirone. Mentre Blackrock, che ha una piccola quota di Siena, aveva votato contro l’aumento di capitale a servizio dell’offerta di Piazzetta Cuccia. Se è vero, come sostiene Lovaglio, che l’operazione Mps-Mediobanca e Mediobanca-Banca Generali non sono necessariamente alternative, è altrettanto vero che l’assemblea del Montepaschi rivela quanto meno una vicinanza di pensiero rispetto agli attori in gioco.
Quale che sia l’esito del voto in assemblea, in ogni caso, ne uscirà un esito non risolutivo, dal momento che a Trieste non pochi soci sono convinti che l’operazione non s’ha da fare. E non sarà certo la posizione favorevole dell’amministratore delegato Philippe Donnet, che in passato aveva parlato di Banca Generali come di una specie di gioiello della corona, che farà loro cambiare idea. Peraltro, il fatto che egli abbia dimostrato pubblicamente una predisposizione all’ok per l’Ops, malgrado gli advisor ancora non abbiano cominciato a valutare costi e benefici dell’operazione di integrazione, la dice lunga in tema di concerto: come non pensare, è il pensiero diffuso sul mercato, che tra Nagel e Donnet non vi siano state nei mesi scorsi delle interlocuzioni.
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