Per decenni l’alto mare è stato il grande spazio grigio della globalizzazione energetica: lontano dai confini, difficile da controllare, ideale per far circolare il petrolio anche quando la politica tentava di fermarlo. Oggi il paradigma si sta incrinando. Le rotte marittime del greggio stanno diventando uno dei fronti più esposti dei conflitti globali, e per i cosiddetti petro Stati autocratici – dalla Russia all’Iran, dal Venezuela agli alleati più opachi – il commercio via mare non è più una valvola di sicurezza, ma un tallone d’Achille. Il sequestro da parte degli Stati Uniti di una petroliera al largo delle coste venezuelane è solo l’ultimo segnale di una svolta strategica. L’Ue valuta misure finanziarie aggressive contro la flotta ombra russa, mentre l’Ucraina ha intensificato gli attacchi alle infrastrutture e alle navi che consentono a Mosca di esportare petrolio aggirando le sanzioni. In parallelo, la tecnologia satellitare, l’IA e la cooperazione tra autorità marittime stanno rendendo sempre più difficile sparire nei vuoti del diritto internazionale.
Ma che effetto avrà questa escalation sul prezzo? Dopo l’introduzione delle sanzioni occidentali, soprattutto contro la Russia, il commercio petrolifero non si è fermato: si è trasformato. È nata una flotta ombra di petroliere vecchie, spesso assicurate da soggetti opachi, registrate sotto bandiere di comodo, che disattivano i transponder Ais e operano trasferimenti nave-a-nave in acque internazionali. Questa infrastruttura parallela è diventata essenziale per mantenere l’offerta globale. Secondo stime diffuse tra operatori e analisti, una quota significativa del petrolio russo – e una parte rilevante di quello iraniano e venezuelano – viaggia su queste navi. Il mercato, in sostanza, ha prezzato una tacita tolleranza: le sanzioni esistono, ma non vengono applicate fino in fondo, per evitare shock sui prezzi.
Quella tolleranza sta venendo meno. Colpire una nave in mare (ovvero sequestrarla, bloccarne i pagamenti, renderla non assicurabile) ha un effetto immediato e sistemico. Non serve fermare milioni di barili al giorno: basta aumentare il rischio percepito. Ogni intervento contro una petroliera ombra produce tre effetti concatenati. Innanzitutto, riduce la capacità effettiva di trasporto. Inoltre, aumenta i costi di nolo e assicurazione. Terzo: introduce un premio di rischio geopolitico, che i mercati incorporano rapidamente. È lo stesso meccanismo rodato nel Mar Rosso con gli attacchi degli Houthi, ma con una differenza: qui il bersaglio non è una rotta, bensì l’architettura dell’elusione delle sanzioni.
I prezzi dell’oro nero possono reagire anche senza una vera carenza. Il costo del petrolio non riflette solo l’offerta fisica, ma la fiducia nella continuità dei flussi. Anche se il greggio continua a essere estratto, il mercato reagisce quando aumenta la probabilità che parte di quell’offerta diventi indisponibile o più costosa. Nel breve periodo, secondo gli analisti, l’impatto più probabile potrebbe essere una maggiore volatilità. Ma anche un floor più alto dei prezzi, perché il rischio non scompare ma si accumula, e differenziali regionali più marcati. Nel medio termine, se l’offensiva si intensificasse, il mercato potrebbe trovarsi davanti a una contraddizione: sanzioni più efficaci ma prezzi più alti, un costo politico che l’Occidente ha cercato di evitare.
In questo paradosso emerge il nodo politico. Colpire il traffico marittimo illecito rafforza la credibilità delle sanzioni e indebolisce i regimi autocratici. Ma allo stesso tempo riduce la flessibilità nascosta del mercato, quella che negli ultimi due anni ha impedito al petrolio di schizzare stabilmente sopra i 100 dollari al barile. In altre parole, l’Occidente sta scegliendo tra sanzioni simboliche con prezzi stabili, o sanzioni reali con prezzi potenzialmente più alti. Il fatto che Washington e Bruxelles appaiano meno esitanti suggerisce che il calcolo politico stia cambiando: la sicurezza strategica e la pressione sugli avversari stanno tornando a pesare più dell’inflazione.
Di certo, il mare è il nuovo fronte della guerra economica. Secondo la società di analisi petrolifera Vortexa, ci sono 1,4 miliardi di barili di petrolio «in acqua». Si tratta di una quantità superiore del 24% rispetto alla media dello stesso periodo dell’anno tra il 2016 e il 2024. I dati misurano le spedizioni in viaggio per essere scaricate in un porto o i carichi che non hanno ancora trovato un acquirente e mostrano un aumento del 16% annuo dei barili prodotti dai principali produttori. L’Opec+ ha pompato più petrolio con l’allentamento dei tagli alla produzione, e l’offerta sta aumentando anche da parte di esportatori non Opec come Brasile, Guyana e Stati Uniti. Ma c’è stata anche un’impennata da parte dei produttori sanzionati. Il numero di barili «scuri» in mare è aumentato dell’82% in un anno, con un rapido aumento negli ultimi tre mesi. Il commercio petrolifero on water sta diventando quello che le pipeline erano durante la Guerra fredda: un’infrastruttura geopolitica vulnerabile. La differenza è che il mare non può essere protetto con muri o confini.
Per gli investitori, dunque, il messaggio è chiaro. Un mercato petrolifero senza flotta ombra è un mercato più rigido, più volatile e strutturalmente più caro. Il mare sta diventando un moltiplicatore di rischio finanziario. E quando il rischio diventa strutturale, il prezzo non può che seguirlo. In un mercato che per anni ha dato per scontato che il petrolio avrebbe sempre trovato una strada per arrivare a destinazione, la variabile non è più quanta offerta esiste, ma quanta può permettersi di viaggiare.
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