Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. Ovvero, se il gap culturale tra Oriente e Occidente è ancora lontano dall’essere colmato almeno su diritti umani ed emancipazione femminile, è il mercato dell’arte oggi a fare da miracoloso collante in grado di legare davanti a un dipinto petrolieri avvolti in candidi dishdash e collezionisti europei in cravatta e polsini. Del resto, da Gedda a Riyadh, passando per Dubai ed Abu Dhabi, il vento caldo dell’arte sta spirando forte proprio da queste parti, dove l’economia non petrolifera corre alla ricerca di nuovi mercati e dove anche la cultura diventa espressione di una metamorfosi votata a moltiplicare gli scambi finanziari.
Una rivoluzione sistemica si sta sviluppando a 360 gradi con fiere, musei e fondazioni private, attirando nell’area anche le major dell’arte mondiale, a cominciare dalle case d’asta: come Sotheby’s, che ha debuttato a febbraio con la prima asta in Arabia Saudita nella storica città di Diriyah, sito dell’Unesco. Promettente è stato il fatturato d’esordio di 17,3 milioni di dollari (ammesse anche le criptovalute) per lotti che spaziavano da Picasso a De Chirico.
Ma anche l’altro colosso, Christie’s, ha appena annunciato l’apertura di una sede araba a Riyadh entro il 2025 finalizzata a intercettare gli ingenti investimenti in arte, sulla scia della stratosferica vendita nel 2017 di un leonardesco “Salvator Mundi” al principe Mohammed Bin Salman. E con le case d’asta approdano magicamente nel Golfo anche le grandi gallerie internazionali, come la parigina Perrotin che solo un paio di settimane fa ha aperto una sede a Dubai nel Difc, il Dubai International Financial Centre, centro nevralgico della città. «Con questo spazio permanente di 100 metri quadrati, continuiamo l’espansione in Medio Oriente e consolidiamo i legami di lunga data con il mondo arabo, contribuendo così a promuovere i suoi artisti nella regione», si legge nel comunicato ufficiale.
Lo sbarco di Perrotin è avvenuto in concomitanza alla fiera Art Dubai che si è chiusa il 20 aprile nel complesso da mille una notte di Madinat Jumeirah, kermesse di un centinaio di gallerie provenienti principalmente da Asia, Africa e Medio Oriente, ma anche da Stati Uniti e Europa. Tra queste anche dieci italiane, come Galleria Continua, specializzata nel contemporaneo con sedi in tutto il mondo: «Siamo presenti ad Art Dubai dalla prima edizione – dice il gallerista Mario Cristiani – per osservare da vicino che cosa sta cambiando in questa zona franca del Medioriente; la formazione di un mercato dell’arte è un processo lento, e il fatto che manchino ancora istituzioni radicate sul territorio certo non favorisce la formazione di un punto di vista indipendente del collezionismo privato. Ma staremo a vedere».
Proprio al fine di creare quel substrato culturale necessario al mercato, gli Stati del Golfo stanno in questi anni generando imponenti investimenti per l’apertura di moderni musei (in Arabia Saudita ne sono previsti trenta entro il 2030) e manifestazioni d’arte pubblica sul modello occidentale: come la Biennale di Gedda, che quest’anno è alla sua seconda edizione con un pubblico che probabilmente supererà i 700mila visitatori dell’ultima Biennale di Venezia, e la Biennale d’arte pubblica di Abu Dhabi su cui l’Emirato investe 35 milioni di dollari all’anno.
Quello di Abu Dhabi, insieme all’Art Week Riyadh che si è appena conclusa «con l’obiettivo di favorire il dialogo, lo scambio e la collaborazione tra l’Arabia Saudita e il resto del mondo», rappresenta forse il fenomeno più interessante. Rispetto a Dubai, tradizionale centro di business e meta di un turismo a caccia del lusso, l’isola punta a collocarsi in qualità di hub culturale dell’area araba. E infatti la Biennale è, almeno all’apparenza, non commerciale: niente gallerie ma suggestive installazioni di artisti contemporanei che, sul territorio, raccontano il nuovo volto del Medioriente fra tradizione, nomadismo e intelligenza artificiale.
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