Fino a qualche anno fa la sostenibilità era sulla bocca di tutti e per i portafogli una scelta quasi obbligata. Tra il 2018 e il 2020 l’investimento Esg (acronimo che sta per Environmental, Social and Governance) impazzava. Mentre Greta Thunberg infiammava le proteste in piazza e i governi sfornavano piani climatici sempre più ambiziosi, l’industria finanziaria cavalcava l’onda riempiendo gli scaffali di prodotti tinti di verde. Ora di quell’euforia, spesso dettata da moda più che di reale intento, è rimasto poco. Basta guardare a questo 2025 ormai agli sgoccioli per rendersene conto. Le continue tensioni geopolitiche hanno spinto in alto sui mercati le società della difesa, negli Stati Uniti ha preso forma una leadership politica che minimizza l’urgenza climatica e sostiene l’espansione dell’industria petrolifera, mentre l’Europa ha relegato il Green Deal a un ruolo secondario per concentrare risorse miliardarie su un piano di riarmo senza precedenti. A tutto questo si è aggiunta la stretta normativa europea. Dopo gli anni di un’offerta selvaggia che ha alimentato un fenomeno di greenwashing, Bruxelles ha imposto regole più severe sull’uso dell’etichetta “Esg” nei nomi dei fondi, rendendo il contesto più rigoroso ma anche più complesso da interpretare.
La sostenibilità quindi è oggi un treno da cui scendere in fretta? Se in passato si è esagerato troppo con il green, ora il rischio è che si vada verso l’estremo opposto. Perché, nonostante tutto, qualcosa di buono c’è ancora. «Nonostante le tensioni geopolitiche abbiano distolto l’attenzione dalla sostenibilità, il settore ha visto un’evoluzione positiva, segnata da metodologie di investimento più sofisticate e da un quadro complessivo più credibile. – sottolinea Michele Morra, portfolio manager di Moneyfarm – Queste etichette, tuttavia, non bastano a garantire uniformità». Le discrepanze tra prodotti restano, come dimostra anche la forbice dei rendimenti: «Confrontando diversi Etf Esg su azionario americano da inizio anno al 1° ottobre, i risultati spaziano da una perdita di circa il 10% fino a un guadagno di circa il 6%, con una variabilità del rischio, misurata in termini di volatilità, superiore di quasi un punto percentuale». Segno che c’è da fidarsi di più delle etichette ma non bastano a garantire coerenza di approccio e qualità dei sottostanti.
Il lungo periodo sta comunque dalla parte dell’Esg: cambiamento climatico, tensioni sociali e cattiva governance sono fattori che, se trascurati, possono penalizzare i rendimenti in un orizzonte pluriennale. E alcune recenti evidenze suggeriscono che la sostenibilità è un trend tutt’altro che morto. La Global 2026 Institutional Outlook Survey di Natixis IM, ad esempio, rivela che oltre la metà dei grandi investitori ritiene che i criteri Esg rappresentino un vantaggio competitivo da tenere in considerazione nella costruzione del portafoglio. Un altro segnale incoraggiante arriva anche dai flussi tornati a crescere dopo una emorragia di inizio anno.
Secondo Morningstar, nel secondo trimestre l’universo dei prodotti sostenibili è rimbalzato, registrando una raccolta netta di 4,9 miliardi di dollari, rispetto al record di riscatti di 11,8 miliardi di dollari dei primi tre mesi del 2025. A guidare la ripresa l’Europa con 8,6 miliardi di nuovi capitali. Non solo. Le strategie sostenibili hanno tenuto il passo con i mercati azionari o obbligazionari in termini di performance degli indici, mostrando che, quando costruito con rigore, l’Esg non è un freno alla performance. Nel secondo trimestre, gli indici Morningstar Global Markets Sustainability e Morningstar Global Corporate Bond Sustainability sono aumentati rispettivamente del 12,6% e del 4,5% contro i guadagni rispettivi dell’11,5% e del 4,3% per gli indici più ampi: il Morningstar Global Markets e il Morningstar Global Corporate Bond Index.
Certo, sapere che il proprio portafoglio non finanzia attività contrarie ai propri valori rimane un nodo cruciale per questo tipo di investimenti, ecco perché è bene approcciarsi a strumenti che utilizzano criteri rigorosi. A questo riguardo, proprio in questi giorni, Arca Fondi ha lanciato Arca Obbligazionario Governativo Biodiversity, il primo fondo obbligazionario governativo europeo dedicato alla tutela della biodiversità e classificato articolo 9 (secondo la normativa europea Sfdr), il livello più alto della regolamentazione. Si tratta di un fondo che investe esclusivamente in titoli di Stato europei con rating di biodiversità superiore a BBB–, secondo il National Biodiversity Protection Index, un indice che valuta i paesi su tre dimensioni: la ricchezza e la varietà degli ecosistemi, l’esposizione al rischio ambientale e infine le politiche di tutela. Prevede la distribuzione annuale dei proventi, un rendimento atteso intorno al 3,5–4% contro commissioni dello 0,80 per cento. L’obiettivo è unire la stabilità dei titoli governativi a un impatto ambientale concreto, offrendo ai clienti sensibili alla sostenibilità la possibilità di bilanciare il portafoglio con una componente a reddito fisso Esg. In questo contesto, l’investimento sostenibile non sembra affatto in ritirata, sta semplicemente cambiando forma.

Leggi anche:
1. I fondi che fiutano l’affare fuori-Borsa a misura di famiglia
2. I fondi comuni hanno quarant’anni e si vedono tutti nell’indice di Borsa
© Riproduzione riservata