Una delle più cocenti delusioni tra i big di Piazza Affari. Nexi, il leader europeo dei pagamenti elettronici, sta vivendo ormai da anni una grave crisi borsistica. Una caduta senza quasi soluzione di continuità che data ormai dall’estate del 2021, quando il titolo della paytech toccava i suoi massimi storici a quota 19 euro per un valore di mercato allora di 20 miliardi di euro. In questi giorni il prezzo dell’azione, scivolato da allora senza sosta, quota intorno a 4 euro con una capitalizzazione ridotta a soli 4,7 miliardi. Ed è meno della metà del prezzo dell’Ipo dell’aprile del 2019.
Di certo un valore che fa a pugni con i fondamentali di bilancio. Quella clamorosa caduta direbbe di un’azienda in una grave crisi economica e finanziaria. Ma non è affatto così. Nexi, che nasce dal vecchio polo dei pagamenti dell’Istituto centrale delle banche popolari e via via trasformatasi in un gigante di stampo europeo grazie alle fusioni, prima con Sia e poi con il gruppo nordico Nets, è di fatto una cash cow. Con una marginalità industriale che supera il 50% dei ricavi è uno di quei titoli forti produttori di cassa. E che negli anni ha continuato a vedere crescere ricavi e utili.
Solo nei primi nove mesi del 2025 ha prodotto ricavi per 2,64 miliardi di euro con un Ebitda (il margine operativo lordo) che vale 1,39 miliardi, di fatto il 52,8% del fatturato. E il consenso degli analisti stima che l’intero anno si chiuderà con un monte ricavi di 3,6 miliardi; un Ebitda di 1,93 miliardi; utili netti per 750 milioni e un flusso di cassa operativo a superare gli 800 milioni. Non solo, ma lo stato di salute non è episodico, è strutturale. Il gruppo di cui la Cassa depositi e prestiti controlla oggi il 19,14% del capitale, dopo l’acquisto da Poste Italiane nella prima parte del 2025 del 3,78% delle azioni, fa della redditività e della crescita i suoi atout da sempre. Nel 2021 infatti i ricavi valevano 3 miliardi che saliranno a 3,6 miliardi alla fine di quest’anno come prevedono gli analisti che seguono il titolo. Il margine lordo era di 1,4 miliardi nel 2021 ora è atteso superare 1,9 miliardi e gli utili che stazionavano a 600 milioni 4 anni fa, oggi dovrebbero chiudere il 2025 a quota 750 milioni.
Vista così la profonda disaffezione del mercato verso il gruppo guidato dall’amministratore delegato Paolo Bertoluzzo, non ha una spiegazione razionale. Parrebbe un paradosso. Ma c’è una cesura radicale tra un prima e un dopo che ha cambiato le sorti borsistiche della cash cow dei pagamenti digitali. E quel drastico cambio di rotta ha a che fare con il debito che ha fatto cambiare pelle alla struttura finanziaria del gruppo delle carte di pagamento e delle soluzioni digitali per banche e imprese.
Un debito salito da 2,1 miliardi del 2020 a quota 5,2 miliardi in un colpo solo nel 2021, in seguito alla grande operazione transfrontaliera di fusione con l’altro attore dei pagamenti elettronici, la danese Nets, forte di un mercato che ha portato in casa Nexi i Paesi scandinavi e del Nord Europa. Un’operazione di concentrazione, dopo quella dell’italiana Sia quasi concomitante, che aveva visto l’ingresso nel capitale dell’azienda di Cdp con il conferimento appunto di Sia.
Nasceva così nel 2021 il leader a livello europeo nel pay tech. Con ricavi balzati da 1 miliardo a oltre 3 miliardi e con il margine industriale balzato da 600 milioni del 2020 a 1,4 miliardi nell’anno dei due grandi deal. Ma il gruppo che aveva visto entrare già nel 2015 i fondi di private equity di Bain, Advent e Clessidra come soci di controllo, subentrati a Icbp che era uscita, si è ritrovato di nuovo come primo azionista un altro fondo di private equity, H&F, in virtù della fusione con Nets. E i fondi come la storia insegna comprano a debito per poi scaricarlo sulla società acquisita. E così la nuova Nexi si è ritrovata in un colpo solo caricata di 3 miliardi di debiti che hanno fatto salire il totale del debito finanziario netto oltre quota 5 miliardi.
In fondo operazioni di questo tipo le abbiamo viste sulla scena già in passato, anche in Italia. Come non ricordare i casi di Seat Pagine Gialle e Telecom Italia che hanno visto cambiare volto alla loro struttura finanziaria proprio con il debito scaricato su di loro. Una manovra responsabile del crollo progressivo dei titoli in Borsa.
E il copione si è replicato con Nexi. È vero che i margini lordi pari a oltre il 50% dei ricavi sono un cuscinetto per sostenere debito aggiuntivo. Ma evidentemente il mercato, che ha memoria lunga, si è spaventato dell’operazione a leva su Nexi. E non è casuale che il declino sul listino sia partito proprio all’indomani della chiusura dell’operazione di fusione con Nets.
Più debito, con una leva di oltre 3 volte sul margine industriale e multipli di Borsa tipici di una stock growth con un valore di mercato pre-deal di oltre 30 volte l’Ebitda, hanno fatto il resto. Il mercato spaventato dal troppo debito ha cominciato a liberarsi del titolo ritenuto sopravvalutato dopo la mega-operazione. E così la parabola discendente da allora non si è più fermata. Nel frattempo i fondi della prima ora (Bain, Advent, Clessidra,) riuniti sotto il cappello di Mercury Uk non hanno aspettato oltre a limare le loro quote, scendendo a un piccolo 3,1% di possesso attuale.
Con la fusione Nets il fondo proprietario H&F è divenuto il primo socio della nuova Nexi con il 22,2% delle quote; mentre Cdp che era entrata nel 2020 conferendo Sia ha visto incrementare di recente la sua quota al 19,14% dopo l’operazione Poste-Tim che ha portato un altro 3,78% di azioni appannaggio di Cdp.
Distanze
Certo è che le visioni sulle strategie e la gestione tra la Cassa e i fondi non possono che essere più distanti e questo pone un problema al management. Per Cdp l’investimento in Nexi è strategico, di lungo periodo a governare un campione nel settore di taglia europea. Per il fondo H&F si tratta della classica operazione di private equity da valorizzare al più tardi in 5-6 anni.
Difficile far collimare visioni così divergenti, il che pone un problema di strategia. Non è un caso che Cdp di recente stia valutando l’acquisto del 3,16% di quote di Mercury Uk che ovviamente non vede l’ora di uscire definitivamente dall’azionariato. Un salto che permettere alla Cassa di pareggiare di fatto la quota di H&F nel capitale. E sempre a proposito di visioni divergenti, non è un caso che Cdp si sia opposta alla vendita al fondo Tpg della rete interbancaria che varrebbe 1 miliardo e abbasserebbe di molto il debito tuttora vicino ai 5 miliardi e forse darebbe il via al rimbalzo borsistico che H&F come gli altri azionisti non vedono l’ora che si avveri.
Possibili soluzioni
Ma cedere la rete vorrebbe anche dire privare Nexi di uno degli asset più redditizi sul lungo termine e ovviamente deprimerebbe ricavi e margini. A incidere sulla fuga degli investitori anche le vicissitudini borsistiche di Worldline, il concorrente francese che si è letteralmente inabissato nei conti e sul listino, con marginalità crollata e un rosso di 4 miliardi a giugno del 2025 per le svalutazioni degli avviamenti. Non c’è ovviamente confronto possibile con Nexi che come abbiamo visto gode di buona salute (debito a parte), ma la grave crisi del gigante francese si è riverberata sull’intero settore. Che sta tra l’altro subendo i morsi della concorrenza.
A questo punto il fondo sulle quotazioni per il gruppo italiano, in caduta libera da quattro anni, potrebbe essere stato toccato. Anche si in Borsa centrare i minimi non è così scontato. Certo è che a prezzi che in settimana hanno sfondato al ribasso la soglia di 4 euro, il titolo Nexi viene valutato solo 5 volte (debiti inclusi) il suo margine operativo lordo. Multipli ormai molto bassi. Ci sarà però da inventarsi sicuramente qualcosa per provare a far risalire le quotazioni. Anche perché la sbandata in Borsa si farà sentire nel bilancio di Cdp di fine 2025. La quota Nexi è in carico a 1,755 miliardi, ma sul mercato vale solo 900 milioni. Andrà con ogni probabilità allineata ai valori di mercato, dopo che già nel 2023 la quota fu svalutata per 712 milioni. Vedremo che cosa si inventeranno soci e manager.
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