Nell’attuale contesto caratterizzato da un dollaro in caduta rispetto all’euro, non sono poche le società quotate in Piazza Affari che risultano particolarmente esposte alla dinamica valutaria. In uno scenario in cui la divisa comune europea continua ad apprezzarsi, gli investitori devono tenere conto non solo della geografia delle vendite, ma anche della struttura dei costi e della gestione dei rischi di cambio.
Tra le aziende esposte al rischio mini-dollaro si possono distinguere due categorie differenti: quelle con una presenza locale e una esposizione principalmente di tipo ‘transaction’, ossia un rischio di breve termine legato alle singole operazioni in valuta estera che impatta i flussi di cassa futuri al momento del pagamento/incasso. In tal caso, l’impatto valutario sugli utili è simile a quello sulle vendite. Di contro, ci sono le società che importano principalmente negli Stati Uniti e sono influenzate dall’esposizione ‘translation’, ossia hanno un impatto valutario sugli utili superiore a quello sulle vendite e le fluttuazioni dei tassi di cambio vanno ad impattare sui bilanci consolidati. Le aziende tendono a implementare strategie di copertura (hedging) per proteggersi dalle fluttuazioni valutarie, in modo da mitigare in parte l’impatto negativo di un dollaro debole.
Da un’analisi effettuata da Banca Akros emerge che sono ben quattordici le società del Ftse Mib che generano oltre il 15% delle proprie vendite negli Stati Uniti. Tra le società maggiormente vulnerabili al rischio cambio (se il dollaro si indebolisce incassano meno in euro) spiccano i nomi di Stellantis (37% dei ricavi arrivano dagli Usa), Brunello Cucinelli (30%), Campari (28%) e Ferrari (25%); queste realtà rischiano di subire un impatto negativo più marcato sulla redditività, poiché un indebolimento del dollaro riduce il valore delle entrate provenienti da oltreoceano una volta convertite in euro, senza una proporzionale riduzione dei costi sostenuti nella valuta europea. Al contrario, aziende come Tenaris, Diasorin, Buzzi e Prysmian, pur avendo una quota significativa del fatturato oltreoceano, gestiscono principalmente attività locali. In questi casi, l’effetto cambio si riflette più direttamente sui ricavi che sugli utili, rendendo l’impatto della debolezza del dollaro relativamente più contenuto.
Un caso peculiare è rappresentato invece da Stmicroelectronics. Sebbene solo il 16% delle vendite provenga dagli Stati Uniti, circa il 90% del suo fatturato è denominato in dollari, mentre una parte significativa dei costi è sostenuta in euro con impianti e centri ricerca e sviluppo in Italia, Francia, Svizzera. Con l’euro forte, i costi salgono, mentre il potere d’acquisto dei ricavi in dollari si riduce. Questo rende il gruppo italo-francese dei chip particolarmente sensibile alle fluttuazioni del rapporto di cambio. Banca Akros stima un impatto sul reddito operativo di quest’anno compresa tra 320 e 400 milioni di dollari per ogni variazione del 10% nel tasso di cambio.
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