All’ultimo Salone del Risparmio la neoeletta presidente di Assogestioni, Maria Luisa Gota, ha annunciato che la sua prima sfida sarà raccogliere proposte concrete per convogliare i risparmi già in gestione e, soprattutto, i circa 1.500 miliardi fermi sui conti correnti soggetti all’erosione dell’inflazione verso investimenti a sostegno della crescita economica. Come? Rilanciando i Pir – i Piani Individuali di Risparmio – europei. Molti esperti del settore sono d’accordo, come il fondatore e ceo di Algebris, Davide Serra, secondo il quale in questo momento ripartire con i Pir, così come erano stati disegnati la prima volta, è perfetto. «È il momento ideale, siamo nel mirino degli Stati Uniti e abbiamo bisogno di reinternalizzare un po’ di nostro risparmio liquido», ha detto Serra.
L’obiettivo è condiviso anche dalla politica: il deputato della Lega Giulio Centemero, capogruppo alla Commissione Finanze, alla presentazione dell’Osservatorio sui mercati dei capitali di Equita aveva sottolineato che «deve essere aperto un nuovo cantiere sui Pir», auspicando che venga avviato un tavolo al Tesoro per lavorarci. «Abbiamo bisogno di creare qualcosa di simile alla commissione per la riforma del Testo unico della Finanza». Nel frattempo, chi ha scommesso su questi strumenti ne sta testando il successo sul campo. A febbraio la raccolta netta di Banca Mediolanum ha superato 1,6 miliardi, un nuovo record assoluto e la componente gestita ha raggiunto 686 milioni nel mese, anche grazie al contributo di un fondo Pir obbligazionario appena lanciato.
Di certo, il mercato dei capitali italiano deve essere rilanciato partendo da due pilastri: la previdenza e gli investimenti in economia reale. In particolare nel tessuto portante dell’industria tricolore: le piccole e medie imprese. Per questo secondo punto esistono già i Pir ordinari e alternativi. I Piani individuali di risparmio erano stati introdotti dal governo Renzi per offrire incentivi fiscali, sotto forma di detassazione delle plusvalenze, ai sottoscrittori che tengono l’investimento per oltre cinque anni. Con la legge di Bilancio del 2019 sono state apportate alcune modifiche: il legislatore è intervenuto sui vincoli di composizione stabilendo che almeno il 3,5% del piano debba essere investito in titoli quotati su mercati delle pmi (per esempio il listino Aim) e un altro 3,5% su azioni o fondi di venture capital.
La rigidità del vincolo e la sua inattuabilità rispetto alle dimensioni dei portafogli aveva però bloccato i Pir ingessando il meccanismo. Adesso il cantiere può ripartire, costruendo al fianco dei Pir italiani dei Pir europei in un’ottica di allocazione. Il 19 maggio 2015 sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea è apparso il regolamento UE numero 760 del 29 aprile 2015 che ha segnato la nascita degli Eltif (acronimo di European long term investment fund). Gli Eltif non hanno un incentivo fiscale: si tratta di un veicolo europeo che se investe in Italia per il 70% può essere disegnato come Pir secondo la normativa italiana. Quindi l’incentivo europeo potrebbe essere inteso come estensione del beneficio fiscale anche al 70% che l’Eltif investe nell’Ue e non solo in Italia. Ma quali sono le differenze tra i due strumenti? Una prima differenza fondamentale tra Pir ed Eltif riguarda la struttura dello strumento.
I Pir non sono dei veri e propri veicoli ma dei “contenitori fiscali” che possono accogliere al proprio interno diverse tipologie di strumenti finanziari (come azioni, obbligazioni ed Etf). Uno dei tratti più significativi dei Pir riguarda, appunto, il regime di esenzione fiscale: se vengono rispettate le norme sui sottostanti e se lo strumento viene detenuto per almeno cinque anni, non si applicheranno né le imposte sulle rendite da capitale né quelle successorie. Gli Eltif invece non godono di benefici fiscali e la loro struttura è profondamente diversa. Non sono contenitori fiscali ma veri e propri fondi chiusi di investimento.
La struttura dei fondi chiusi fa sì che i capitali raccolti dagli investitori possano essere rimborsati solo a scadenza o dopo un lasso di tempo specificato dal regolamento del fondo. I capitali, dunque, sono impiegati secondo un orizzonte temporale che non è di breve ma di lungo periodo. Pir ed Eltif si rivolgono, inoltre, a target diversi di investitori. I Pir, gli unici al momento a godere di benefici fiscali, sono riservati alle persone fisiche e di fatto hanno un “tetto” all’investimento limitato a 30mila euro per anno, gli Eltif, al contrario, prevedono una soglia minima di investimento, la normativa stabilisce, tra l’altro, che gli investitori al dettaglio con un portafoglio inferiore ai 500mila euro non possano investire più del 10% in questi strumenti.
Un’altra differenza importante riguarda i sottostanti su cui possono essere impiegate le risorse raccolte. I capitali raccolti negli Eltif possono essere investiti in un’ampia gamma di sottostanti che non si esaurisce solo in titoli di debito o di equity di aziende già quotate ma abbraccia anche il private debt, i minibond e le piattaforme fintech. Tornando allo scenario sullo sfondo, nell’Unione europea i risparmi privati certo non mancano: rappresentano il 25% del pil contro il 18% degli Usa, ma il problema è che sono tenuti liquidi. Attualmente, circa 10mila miliardi di euro di risparmi delle famiglie europee sono depositati in conti correnti o sono in contanti, oltre il 40% della ricchezza finanziaria netta totale (24 mila miliardi di euro), rispetto a 13 mila miliardi di euro negli Stati Uniti, un importo molto più basso sul totale di 82mila miliardi di euro, il 16%. Questa differenza sostanziale evidenzia la necessità di indirizzare questi fondi in investimenti produttivi.
© Riproduzione riservata