Negli ultimi tre anni, le principali aziende tecnologiche hanno investito in data center per l’intelligenza artificiale, oltre a chip ed energia, più di quanto sia costato costruire l’intera rete autostradale interstatale in quattro decenni, al netto dell’inflazione. I sostenitori dell’IA paragonano questo sforzo alla Rivoluzione Industriale. C’è però un grosso problema: facendo anche i conti con il rischio bolla, nessuno sa con certezza come o quando verrà recuperato il proprio investimento.
Di certo, l’espansione dell’intelligenza artificiale sta ridisegnando l’economia digitale, ma il suo impatto non è soltanto tecnologico: è fisico, energetico e finanziario. Ogni modello linguistico, sistema di visione artificiale o motore predittivo poggia su un’infrastruttura la cui scala cresce molto più velocemente della domanda stessa di servizi IA. E i costi sono ormai uno dei temi centrali del settore. Dopo i 238 miliardi di dollari stanziati nel 2024 e i 414 miliardi stimati come totale del 2025, per il 2026 il consensus di mercato vede salire la somma a 540 miliardi, mentre le stime degli analisti arrivano a 609 miliardi. Dall’uscita della prima versione di ChatGpt sono stati stanziati già più di 1.250 miliardi.
La spesa per le infrastrutture cloud rientra nella Capex (la spesa in conto capitale), ovvero l’ammontare di flusso di cassa che un’impresa impiega per acquistare, mantenere o sviluppare le proprie immobilizzazioni operative. Si tratta di spese non ricorrenti, che servono a costruire o acquistare asset durevoli e che generano valore nel tempo. Queste spese vengono capitalizzate: non finiscono subito nel conto economico, ma vengono ammortizzate negli anni. Ebbene, la Capex per l’IA, trainata in particolare da Oracle, Microsoft e Google, salirà di un ulteriore +47% nel 2026.
Guardando alle previsioni degli analisti sulla Capex destinata all’IA generativa per gli hyperscaler, parliamo di 140 miliardi di dollari per Microsoft, di oltre 120 per Meta, di 150 per Amazon e di 130 miliardi di dollari per Alphabet. Secondo una stima della società di venture capital Sequoia, il denaro investito in infrastrutture di intelligenza artificiale solo nel 2023 e nel 2024 richiederà a consumatori e aziende di acquistare circa 800 miliardi di dollari in prodotti di intelligenza artificiale per l’intero ciclo di vita di questi chip e data center, per ottenere un buon ritorno. «Spero che non ci vorranno 50 anni», ha dichiarato a maggio il ceo di Microsoft, Satya Nadella. E il ceo di Meta, Mark Zuckerberg, gli ha ribattuto: «Sì, beh, stiamo tutti investendo come se non ci volessero 50 anni». Lo stesso Zuckerberg poi ha anticipato il suo progetto di mega data center Hyperion con un post sui social media in cui mostrava che avrebbe avuto le dimensioni di un’ampia porzione di Manhattan.
I consulenti di Bain & Co. hanno stimato che l’ondata di spesa per le infrastrutture di intelligenza artificiale richiederà due trilioni di dollari di entrate annuali dall’intelligenza artificiale entro il 2030. Il finanziamento per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è complesso. Il debito è stratificato a quasi tutti i livelli. Alphabet, Microsoft, Amazon, Meta e altre aziende creano i propri prodotti di intelligenza artificiale e talvolta vendono l’accesso ai servizi di cloud computing ad aziende come OpenAi che progettano modelli di intelligenza artificiale. Si prevede che i quattro hyperscaler da soli spenderanno quasi 400 miliardi di dollari in investimenti di capitale il prossimo anno, più del costo del programma spaziale Apollo. Poi ci sono i grossi intermediari come CoreWeave guidata da ex trader di materie prime, il cui compito principale è affittare data center, riempirli di chip Nvidia e poi affittare i server alle aziende tecnologiche. CoreWeave ha già accumulato contratti per un valore di oltre 42 miliardi di dollari con aziende tecnologiche che affitteranno i suoi server nei prossimi anni. Ma questa crescita è stata resa possibile da un ingente indebitamento che ha raggiunto già i 15 miliardi di dollari.
Un rapporto del Mit ha intanto rilevato che il 95% delle organizzazioni intervistate non ottiene alcun ritorno sugli investimenti in prodotti di intelligenza artificiale. Uno studio dell’Università di Chicago ha rilevato che i chatbot basati sull’intelligenza artificiale non hanno avuto «alcun impatto significativo sui guadagni dei lavoratori, sulle ore lavorate o sugli stipendi» in 7.000 luoghi di lavoro danesi. Ogni nuovo modello di intelligenza artificiale (ChatGpt-4 e ChatGpt-5) costa significativamente di più del precedente per l’addestramento e il rilascio sul mercato, spesso da tre a cinque volte il costo del precedente, affermano i dirigenti del settore. Ciò significa che il ritorno sull’investimento deve essere ancora più elevato per giustificare la spesa. Senza dimenticare che i chip nei data center non saranno utili per sempre perché perdono rapidamente valore con il progresso tecnologico, proprio come un vecchio modello di auto.
Gli analisti hanno notato gli effetti macroeconomici dello sviluppo dell’intelligenza artificiale: in un recente rapporto, Stephanie Aliaga, strategist di Jp Morgan Asset Management, ha affermato che le spese in conto capitale legate all’intelligenza artificiale rappresentano ormai una quota significativa della crescita complessiva del Pil, «superando il consumo statunitense come motore di espansione». Secondo il ceo di Ibm, Arvind Krishna, la corsa attuale a costruire centinaia di data center per l’IA su scala globale potrebbe risultare insostenibile economicamente con i costi attuali. Per esempio, secondo le sue stime servirebbero decine di miliardi per ogni gigawatt di capacità, e i ritorni potrebbero non giustificare l’investimento. Poi c’è la variabile energetica: una delle metriche chiave per capire la sostenibilità della crescita futura diventa infatti la quantità di token generati per unità di energia durante l’inferenza. Il punto è capire quanta IA si ottiene a fronte del consumo energetico. Se ci fosse una frenata improvvisa nel prossimo biennio, gli hyperscaler si troverebbero davanti a un ulteriore rischio di deprezzamento degli asset su cui sono state investite cifre enormi, a danno dei margini operativi. Ma la corsa a costruire, alimentare e raffreddare data center sempre più imponenti continua ad accelerare. Perché nessuno dei big può permettersi di restare indietro.
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