Un nuovo fenomeno sta emergendo nel mondo del lavoro: è il “Grande Gap” e indica un vero e proprio scollamento tra intenzioni e percezioni in termini di welfare aziendale. Mentre il 77% delle aziende italiane è convinto di offrire ai propri dipendenti un welfare efficace, solo il 54% dei lavoratori si dice soddisfatto. E’ ciò che emerge dal Great Employee Benefits Study (GEBS 2025), realizzato da Epassi in collaborazione con l’università finlandese di Aalto e basato su un campione di 6.000 dipendenti e 1.435 dirigenti e Hr di aziende con oltre 50 dipendenti. Lo studio fotografa un’Italia aziendale che si percepisce all’avanguardia ma che, nei fatti, fatica a leggere i bisogni reali delle proprie persone.
Welfare aziendale vero o presunto?
Il nome dello studio richiama volutamente Il Grande Gatsby, e la similitudine con il celebre romanzo di Fitzgerald non è casuale. Come l’America degli anni ‘20, anche il welfare italiano sembra vivere di apparenze e autocelebrazioni, mentre sotto la superficie si cela un malessere profondo. “Così continuiamo a remare, barche contro corrente…” scriveva Fitzgerald: una frase che oggi suona come un’amara profezia per migliaia di lavoratori italiani che si sentono poco ascoltati, poco visti, e sempre più disillusi. Un divario tra offerta e percezione che non è una semplice questione di percentuali, ma una frattura che rischia di compromettere motivazione, fiducia e competitività.
I benefit ci sono, ma spesso non servono. Il 35% dei dipendenti italiani afferma che le soluzioni proposte non sono utili o semplicemente non vengono utilizzate. Il dato sarebbe già allarmante così com’è, ma diventa ancora più inquietante se si guarda l’altro lato della medaglia: solo il 3% delle aziende ammette che qualcosa non funziona. Un abisso di consapevolezza.
“Colmare il grande gap – spiega Alberto Perfumo, ceo di Eudaimon – significa ripensare il ruolo dell’impresa nella vita delle persone. Oggi il vero ostacolo non è solo offrire soluzioni, ma imparare a parlare la lingua del benessere quotidiano. Se il welfare non parla la lingua della vita, diventa invisibile.”
Il confronto con l’Europa
Sul fronte dell’employee engagement, ovvero del coinvolgimento del lavoratore, l’Italia mostra tutti i segni di un sistema in affanno. Solo il 65% dei dipendenti si sente davvero coinvolto nel proprio lavoro. Numeri ben lontani dagli standard europei: in Germania si arriva al 77%, nel Regno Unito all’88%, nei Paesi nordici oltre il 90%.
E non è solo una questione di percezioni. Anche i datori di lavoro italiani sembrano meno inclini ad attuare politiche efficaci per migliorare la vita dei propri collaboratori: solo il 38% dichiara di farlo. Nei Paesi Bassi si arriva al 66%, nel Regno Unito al 61%. La distanza è evidente, e sempre più difficile da giustificare.
La natura del divario non si ferma qui: anche dal punto di vista dei dipendenti la percezione degli sforzi messi in campo dalle aziende italiane è tra le più basse in Europa: solo il 32% afferma di notare miglioramenti nella propria esperienza lavorativa, contro il 58% nel Regno Unito e il 62% nei Paesi Bassi. In Italia, quindi, non solo si investe meno, ma spesso lo si fa in modo poco visibile o inefficace.
Il modello tradizionale, fatto di benefit standardizzati, buoni pasto e palestre aziendali, non regge più il passo. Serve un approccio più umano, più dinamico, più vicino alla vita reale. Un ecosistema di benessere integrato, che tenga conto di ciò che le persone davvero chiedono: flessibilità, ascolto, crescita, equilibrio. Perché il problema non è solo quanto si investe, ma come si comunica, cosa si propone, e soprattutto chi si mette davvero al centro.
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