Il ruolo delle assicurazioni sarà decisivo nel nuovo equilibrio del welfare del Paese. Ne è convinto Giovanni Liverani, da sei mesi al vertice di Ania, l’associazione nazionale delle compagnie di assicurazione. In questa intervista propone un patto sempre più stretto tra pubblico e privato nei tre settori fondamentali che costituiscono il sistema di protezione sociale: previdenza, salute, non autosufficienza.
Liverani, il nuovo welfare dipende molto dalla demografia del Paese.
«Certo. Viviamo sempre più a lungo. E questa è una buona notizia. Ma il problema è come vivremo questi anni in più. Il rischio è di ritrovarci più soli, più fragili, più tristi. Sempre meno nascite, sempre meno giovani. Le persone che andranno avanti con l’età avranno sempre meno conforto e aiuto dalle giovani generazioni, avranno inevitabilmente una salute più esposta a rischi e disporranno di risorse sempre meno cospicue».
Parliamo di risorse, di reddito disponibile. Insomma di pensione. Sul fronte della previdenza quali certezze in più può fornire il sistema assicurativo?
«Siamo entrati nell’era del sistema contributivo puro, e chi non ha fatto un piano di integrazione previdenziale, andando in pensione si troverà da un giorno all’altro con un tenore di vita ridotto anche di un terzo. Il calcolo contributivo della pensione di primo pilastro, infatti, assicura ormai un tasso di sostituzione medio del 65% per i lavoratori dipendenti, anche meno per gli autonomi. In Italia solo un lavoratore su tre sta provvedendo alla pensione integrativa. In Olanda il 100%, in Germania il 95%».
Però le risorse disponibili per la previdenza complementare in Italia sono ridotte, a fronte di una pressione contributiva obbligatoria di gran lunga più pesante rispetto ad altri Paesi.
«Sì e no. È vero che la contribuzione obbligatoria è più alta, ma è anche vero che gli italiani risparmiano di più e hanno casa di proprietà. Almeno il 75% non paga l’affitto. Insomma, ci sono risorse per costruire un buon piano per il secondo e terzo pilastro previdenziale. Devono essere utilizzate meglio. E noi abbiamo delle proposte».
Sentiamole.
«È tempo di rendere l’adesione a un fondo pensione la regola non l’eccezione. Prima si contribuisce, più consistente sarà il monte contributivo e quindi la rendita che ne deriva. So che l’obbligatorietà è un tema delicato, ma quanto prima dovremo trovare il modo di invertire i fattori, spingendo i lavoratori ad aderire, anche con meccanismi di adesione automatica, e parallelamente mitigando i vincoli di uscita dal sistema».
Seconda proposta?
«Ci vuole più flessibilità, sia nella fase di accumulo sia nella fase del riscatto della rendita. La flessibilità in fase di accumulo si potrebbe assicurare, a esempio, ma mettendo la contribuzione da parte di terzi, come quella dei genitori in favore dei figli. E ci vuole più flessibilità anche in fase di uscita: oggi l’unica possibilità è la rendita o l’incasso del capitale. Dovrebbero esserci più opzioni nel corso del ciclo di vita degli individui. Il risparmio previdenziale è troppo spesso visto come una semplice forma di risparmio finanziario, ma questo è un errore. Bisogna personalizzare di più e utilizzare al meglio le caratteristiche attuariali che differenziano la previdenza dalla finanza. Si devono poi anche incentivare gli investimenti delle riserve con maggior peso nell’economia reale per produrre il massimo della sua redditività».
C’è però anche una scarsa propensione al rischio da parte di chi sottoscrive un fondo di previdenza complementare.
«Vero. Il profilo azionario dovrebbe essere scelto con maggiore attenzione. Qui scontiamo il deficit di educazione finanziaria e soprattutto assicurativa. Vedo però molta attenzione da parte delle Istituzioni. Abbiamo da poco parlato di un protocollo d’intesa con il Ministero dell’Istruzione per sensibilizzare i giovani durante il ciclo scolastico sulle tematiche assicurative».
Passiamo alla salute. Qui il problema non è solo finanziario, ma anche organizzativo. Il sistema assicurativo che cosa può offrire al welfare del Paese?
«Innanzitutto, va chiarita una cosa: bisogna preservare il Sistema sanitario nazionale (SSN). Il mondo assicurativo ha tutto l’interesse a creare anche qui un secondo e un terzo pilastro, analogamente a quanto fatto con la previdenza, per sostenere il SSN, in sinergia e non in alternativa ad esso».
Quindi non c’è da auspicare un ritorno alle mutue? Oggi l’evoluzione del welfare aziendale di fatto sta producendo una nuova forma di mutualismo.
«Il ritorno al passato non è mai un buon suggerimento. Bisogna invece prevedere una revisione organica in materia di fondi sanitari. Oggi la maggioranza dei fondi, cui aderiscono oltre 16 milioni di italiani per la sanità integrativa, deve erogare almeno il 20% di prestazioni per servizi extra-Lea, in pratica prestazioni al di fuori del SSN. Dobbiamo orientare la loro attività con l’obiettivo di intercettare e ottimizzare quella spesa privata che in sanità vale 40-45 miliardi all’anno e che oggi per il 90% transita fuori dai fondi sanitari. E questo per il SSN può essere un’opportunità, per esempio, per finanziare attività in regime di libera professione intramuraria, sia nella diagnostica, sia nei piccoli interventi chirurgici, che andrebbero fatte rientrare in quel 20%».
È molto ottimista sul Ssn.
«Il Sistema sanitario nazionale può migliorare come dimostra la sua qualità, là dove funziona».
Ottimista anche sul permanere della regionalizzazione?
«Anche regionalizzare va bene, se funziona».
Passiamo all’ultima frontiera: la non autosufficienza.
«Il tema della fragilità è troppo spesso trascurato. In Italia si stima che ci siano 4 milioni di persone non autosufficienti. Con l’andamento demografico questo è un fenomeno destinato a crescere. Occorrono prodotti assicurativi diversi, rispetto a quelli che ci sono. Molto spesso la polizza viene attivata negli accordi sindacali di welfare aziendale, peccato che la copertura termina quando il contratto di lavoro finisce; ma proprio allora, con l’età che avanza, servirebbe una copertura efficace e di lungo periodo. Il tema della durata della copertura è essenziale, dovrebbe essere a vita intera. E se si raggiungessero gradi di copertura elevati se non addirittura universali anche i premi sarebbero assai ragionevoli. In altri Paesi già funziona così».
E le compagnie di assicurazione devono cambiare qualcosa su questo fronte?
«Credo che le compagnie debbano sviluppare prodotti nuovi con tecniche attuariali di lungo periodo e riserve di senescenza, ma potrebbero anche giocare un nuovo ruolo: diventare erogatori di “assistance”. Come già accade per alcuni servizi più semplici, la compagnia deve dotarsi di un servizio diretto alla persona, per soddisfare le esigenze di chi sottoscrive la polizza e si trova in una situazione di fragilità nel momento del bisogno».
© Riproduzione riservata