In dieci anni Satispay ne ha fatta di strada. Ma qualcosa è cambiato nel suo orizzonte di business. Se il modello disruptive di pagamenti elettronici introdotto nel 2015 si proponeva un obiettivo internazionale (una competizione almeno europea), oggi – dopo il Covid e un’inversione netta di tendenza nelle abitudini in Italia: ormai non fa più scandalo pagare un caffè senza contanti – si tratta di diventare il “campione nazionale” delle transazioni digitali. E il mercato del welfare aziendale può essere un acceleratore.
Definire il concetto di startup (o di scaleup) non è sempre facile: si può essere startup dopo dieci anni di attività? C’è chi ha insinuato malignamente che la mancanza di profittabilità di Satispay (negli ultimi tre anni ha cumulato perdite per circa 150 milioni di euro) possa essere un problema. Alberto Dalmasso, fondatore e ceo della società, siede comodo su un gruzzolo di investimenti che gli hanno assicurato – e gli assicurano – uno sguardo meno breve. L’ultimo round di investimenti, tre anni fa, ha garantito a Satispay un flusso di 320 milioni di euro, e una valutazione da “unicorno”, che vuol dire più di un miliardo di dollari. Oltre a un numero di collaboratori che entro l’anno dovrebbe superare il migliaio (da 700 che erano lo scorso anno): sviluppatori di nuovi servizi e commerciali per vendere sempre più e sempre meglio.
«Non abbiamo fretta di chiudere un esercizio in utile – commenta Dalmasso – abbiamo investimenti per fare qualcosa di più urgente che distribuire un dividendo ai nostri soci, che infatti hanno voluto investire per consentirci di crescere in valore, innovazione e in qualità dei servizi. Ma la profittabilità non è lontana. Oggi abbiamo 5,4 milioni di utenti (erano 3,3 nel 2022) che usano la nostra app per pagare ogni tipo di transazione, dai negozi al PagoPa. Quando arriveremo ai 7 milioni di utenti e a 13 milioni al mese di ricavi – nel 2024 abbiamo fatto ricavi per 46 milioni, contro gli 11,5 del 2022 – ci sarà un primo esercizio in utile. Visto il ritmo di crescita, negli ultimi anni abbiamo acquisito un milione di clienti all’anno, entro il 2027 ci saremo. Ma ripeto: il profitto non è il nostro obiettivo primario».
Se dieci anni fa l’orizzonte europeo costituiva il mercato di riferimento, oggi l’obiettivo di Satispay è diventare il leader italiano delle transazioni digitali. Satispay è stata lanciata in un’Italia che aveva il 70% dei pagamenti in contante. Oggi, per la prima volta, i pagamenti elettronici hanno superato il 50% del totale. E i servizi di welfare aziendale possono diventare un booster per la crescita. Nel 2024 il 10% dei ricavi di Satispay era imputabile alle transazioni da welfare; l’obiettivo 2025 è di arrivare al 30 percento. Vuol dire triplicare.
Da due anni Satispay è un emettitore di buoni pasto ed è entrato anche nel mercato dei fringe benefit. È l’unico provider di welfare aziendale che nasce (ed è soprattutto) come intermediario nei servizi di pagamento elettronico. Nel mercato dei buoni pasto è entrato – grazie proprio al suo profilo finanziario – come un elefante in una cristalleria: dove vigevano commissioni del 15-20% a carico degli esercenti per l’incasso dei buoni, l’azienda di Dalmasso ha proposto la sua formula: niente commissioni sotto le transazioni da dieci euro, 20 centesimi di euro per ogni altra transazione. Dallo scorso 7 aprile il pricing è cambiato: 1% su tutte le transazioni. Per i buoni pasto resta un’offerta stracciata, anche a fronte della sterilizzazione delle commissioni al 5%, imposta dal Dl Concorrenza dello scorso mese di dicembre.
Per le altre attività l’aumento della commissione ha creato qualche borbottio. Dieci anni fa Satispay è entrato nel mercato sovvertendo il modello a quattro parti (utente, carta, banca, esercente) delle carte di debito/credito. Ha sfrondato l’intermediazione e in forza di questo modello tripartito (utente, app Satispay, esercente) ha imposto commissioni bassissime.
Il nuovo pricing, che si avvicina a quello delle “carte”, non contraddice il modello? «Noi parliamo con gli esercenti – risponde Dalmasso – e non vediamo più in loro questa ricerca dell’offerta che costi particolarmente meno. Sono più preoccupati di avere servizi che il consumatore vuole utilizzare e che gli portino più clienti. Perciò abbiamo trasformato Satispay. Era uno strumento esclusivamente prepagato. Oggi non più. In più abbiamo iniziato a investire anche su logiche di loyalty, perché quello che abbiamo osservato negli anni è che servono cose che stimolino i consumatori a tornare a spendere. E spendere di più».
Per Satispay le commissioni degli esercenti costituiscono circa il 25% dei ricavi. La parte comunque meno remunerativa, anche con l’aumento all’1 percento. «Noi guadagniamo quando gli utenti fanno ricariche telefoniche, quando pagano i bollettini o PagoPA, quando fanno la ricarica di Gift card» aggiunge Dalmasso.
Quindi l’aumento vero dei ricavi non dipende tanto – sostiene Dalmasso – dal nuovo pricing, ma dall’acquisizione di nuovi utenti. «Una volta spendevamo più di 40 euro per conquistare un utente, adesso ne spendiamo 15. E questo utente ci mette un anno e mezzo/due a ripagarsi, in funzione delle transazioni che fa con la nostra app. Se ne voglio acquisire tanti, visto che non si ripagano in pochi mesi, posso fare marketing e investire sia lato utenti, sia lato esercenti, sia lato datori di lavoro nel mondo welfare. L’obiettivo dell’investimento, del Venture Capital, è proprio quello di andare ad acquisire più velocemente di quello che potresti fare aspettando che quelli che ho acquisito l’anno scorso mi generino un po’ di ricavi e vado a investire per acquisire un altro. Quindi è un modo di accelerare la crescita».
Insomma, aumentare utenti e ricavi, senza fretta per l’utile di esercizio. «Guardi che però, anche se non abbiamo ancora distribuito dividendi, abbiamo distribuito molto valore – conclude Dalmasso – in questi dieci anni chi ha venduto le quote del capitale o le stock option, come vecchi soci, Iccrea, Banca Etica o Tim, ha incassato un valore complessivo di almeno 150 milioni».
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