Daria Illy non puoi inglobarla in un’unica definizione. Discendente della storica dinastia leader nel settore del caffè, due giorni fa ha diramato un comunicato ufficiale dove rivela di essere ufficialmente uscita dall’azienda di famiglia di cui deteneva il 19% delle quote azionarie. Daria nel corso della sua carriera ha dimostrato sul campo di essere un’abile manager e leader, ricoprendo ruoli dirigenziali in complessi contesti multinazionali, modellando culture aziendali e ristrutturando modelli di business. Tra le sue collaborazioni più strette annovera nomi prestigiosi come Forbes, Cariplo Factory, Crédit Agricole, Midhug e l’Università del Sacro Cuore di Milano, dimostrando la sua capacità di operare a livelli d’eccellenza. Vanta una Laurea Capolavoro dall’Università di Urbino e del premio Areté “Maestra della responsabilità”. Mi è bastato parlarci per capire che avevo davanti una donna determinata e fuori dagli schemi. Ho cercato di farmi raccontare il perché di questa sua ennesima svolta.
La sua famiglia ha acquisito il 19% delle sue quote azionarie, giusto?
«Diciamo che io gliele ho vendute».
Perché è maturata questa scelta?
«All’interno di un riassetto dell’azienda c’è stata la possibilità di dare maggiore compattezza al gruppo».
Lei ha condiviso questa scelta?
«Ovviamente sì. Io ho fatto 16 anni all’interno del wellness e poi altri 16 anni nell’azienda. È giunto il momento di lavorare fuori. Con i miei figli ad esempio».
Ho l’impressione che lei abbia scelto di uscire dall’azienda perché si sentiva un po’ stretta. Sbaglio?
«Io sono uno spirito libero. Se posso evitare le troppe regole…».
E cosa progetta di fare?
«Mi piacerebbe creare qualcosa che possa rendere almeno una piccola parte del mondo più libero e contribuire con la mia esperienza di architetto del cambiamento a migliorare le potenzialità aziendali altrui».
Lei sentiva di non riuscire ad esprimere in azienda tutto il suo potenziale?
«Mi sentivo di poterlo espandere».
Come è stata accolta la sua decisione?
«Nelle grandi famiglie imprenditoriali il business prevale su tutto, c’è bisogno di compattezza finanziaria. È stata una decisione concordata nella condivisione degli intenti comuni».
Mi dica la verità…
«Ero troppo affezionata alla ‘baby Illy’, la Illy industriale mi dava nostalgia invece. E mi rendo conto che una realtà industriale non può esimersi dalla scalabilità. Ammetto anche questo: dopo 16 avevo voglia di cambiare prodotto e servizi. Voglio capitalizzare le esperienze e investire nel capitale umano».
Cosa è cambiato in lei?
«Ho sentito nuovamente l’impulso e la voglia di capitalizzare l’esperienza nel creare qualcosa di mio in altri settori e aiutando gli imprenditori con consulenze di business architect».
Cosa le mancava?
«L’indipendenza nel poter esprimere in autonomia le mie capacità imprenditoriali».
Questa idea di azienda non è in conflitto, ad esempio, con l’intelligenza artificiale?
«No, io credo molto nell’intelligenza artificiale. La studio, la conosco. Ma non esiste il tech senza l’human. Alla fine è l’uomo quello che conta. Non ottieni nulla senza valorizzazione del capitale umano, perché gli esseri umani sono fondamentali e insostituibili in quei ruoli e quelle competenze che comunque conserveranno…».
Le persone non sono più al centro?
«Già. Non vedo più quel rapporto igienico tra le persone che è l’essenza di un team».
Non riesce a lavorare in un ambiente che non valorizzi la persona?
«No. Anche perché ne risentono i risultati finanziari. In una azienda non devi essere bravo solo a risparmiare. Anche a inventare, a produrre e a vendere. Se perdi il valore del rapporto human to human cambia tutto, cambia il ritmo del lavoro, cambia lo spirito e cambiano i risultati».
Il suo cognome è stato ingombrante?
«Un cognome importante. Ho avuto la libertà di studiare quello che mi piaceva e sono riuscita ad emergere come Daria.».
Con un cognome importante si fatica di più o di meno?
«Fai il doppio della fatica. Se fai bene è merito di Illy, se fai male è colpa tua. Un peso veramente esistenziale. Le spiego. C’è una differenza molto grande tra un capo e un leader. Capo ti nominano. Leader ci devi diventare. Il rispetto, il riconoscimento del merito, la fiducia. Sono cose che ti guadagni non te lo regalano».
Università?
«Quando all’università mi chiedevano se ero la figlia di Illy io dicevo di no».
Non ha mai avuto favori?
«No. Io sono entrata alla Illy guadagnando si è no un terzo di quello che guadagnavo nel lavoro precedente».
Perché è entrata?
«Mio nonno, che ho adorato, mi ha convinto ad entrare. Lo ho conosciuto tardi. Quando da grande ho capito cosa aveva tracciato a livello di governance, mi ha incantata».
E in azienda come si è trovata?
«Ho combattuto. Anche contro i pregiudizi. Il mio avanzamento, meritatissimo, è arrivato dopo anni. Meglio non darlo subito l’avanzamento, penserebbero a un favoritismo. Così mi veniva detto».
Ma in azienda il clima era di collaborazione, o no?
«Si, Illy è un’azienda dove la collaborazione è alta, ma che era per me logorante proprio per il rapporto intenso tra le persone».
Essere donna è stato un intralcio?
«No. Riccardo Illy mi ha cresciuta come una persona non come una donna. Mi chiamava Billy era il mio soprannome. Non mi sono mai stata sentita discriminata».
Lei dice presidente o presidentessa?
«O mammamia non me ne parli. La sindachessa e la presidentessa. Questo vuol dire affidare il nostro merito di donne alla semantica, storpiando la grammatica».
Il polo del gusto si è staccato dal polo del caffè. Lei era d’accordo?
«Io sono sempre stata a favore della diversificazione in una sola azienda».
I rapporti con papà Riccardo?
«Lui è il maestro. Lui è il faro. Di una lucidità pazzesca. Riccardo è la persona più semplice e più intellettualmente evoluta che io abbia mai conosciuto. Quanto lui sia stato centrale nella mia crescita lei non può nemmeno immaginarlo».
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