Dazi, prezzo del caffè alle stelle, e variabili climatiche nei paesi d’origine della materia prima. Quella che deve affrontare il mercato del caffè sembra una tempesta perfetta. Ma «è proprio in salita che si deve accelerare», osserva dialogando con Moneta la ceo di Illycaffè, Cristina Scocchia, al timone di un gruppo che nel 2024 ha fatturato 630 milioni (+6% rispetto al 2023) con un utile netto di 33 milioni (+42%).
Scocchia, gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato per Illycaffè, come state affrontando la guerra commerciale scatenata da Donald Trump?
«L’export verso gli Usa ad oggi per noi pesa per il 20% del fatturato. È ovvio che una compressione dei margini negli Stati Uniti si fa sentire anche sui margini dell’azienda nel suo complesso. Però dobbiamo essere pragmatici. Adesso abbiamo una certezza, sperando che i dazi frutto dell’accordo con l‘Europa rimangano al 15%, non credo si potesse fare molto meglio».
Per quali ragioni soprattutto?
«Le forze in campo erano impari. Da una parte hai uno Stato con una leadership chiara. Qui hai tanti Stati senza una leadership, perché l’Italia, la Francia e la Germania non sono sempre allineate sulle grandi questioni. Non siamo indipendenti dal punto di vista dell’energia, non siamo importanti dal punto di vista della Difesa e non siamo indipendenti dal punto di vista della tecnologia. Fare la guerra commerciale agli Stati Uniti non avrebbe avuto senso, perché l’avremmo persa, e in più avremmo messo in tensione un rapporto tra le due anime dell’Occidente che mai come adesso è importante. Sarebbe stata, quella, una disfatta. Questa non è né una vittoria né un pareggio. È una ritirata strategica, ordinata, che è sempre meglio di una disfatta».
Quale sarà il prossimo passo che dovrà compiere l’Europa per non rimanere un vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro, ovvero Cina e Usa?
«Adesso serve una reazione dell’Europa e serve una reazione delle aziende. I dazi di Trump hanno dato una scossa, l’Europa deve scuotersi dal torpore. E accelerare sul percorso di integrazione, soprattutto sulla messa in comune di ingenti risorse che possono essere investite».
Dove e come?
«Primo, nella riduzione del costo dell’energia. Come azienda non posso pagare l’energia quattro o cinque volte quella che pagano gli americani, perché altrimenti giochiamo già in partenza in due campionati diversi. Secondo, bisognerebbe avere un approccio più razionale al Green Deal. Noi siamo per il Green Deal, le nostre aziende sono sostenibili. Il problema è un altro. Le faccio un esempio, a fine dicembre entrerà in vigore il regolamento europeo sulla deforestazione che impedisce alle aziende d’Europa di rifornirsi di alcune materie prime se non sono state prodotte nel rispetto dei diritti umani. Le materie in questione devono anche considerare tutte le normative di legge del Paese d’origine e per la loro produzione, non devono essere utilizzati terreni oggetto di deforestazione successivi al 31 dicembre 2020. Per poterlo verificare ci servono le coordinate Gps delle piantagioni. Ad oggi l’Etiopia è in ritardo rispetto ad altri paesi. A Bruxelles forse non hanno valutato che il 40% del caffè prodotto in Etiopia finisce nella Ue. Tutto quello che sta dietro al Green Deal è giusto e sacrosanto, ma ci vuole razionalità nei tempi di implementazione».
Ci sono altri freni alla concorrenza che impediscono la creazione di campioni europei?
«L’aliquota fiscale. Non va bene che Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo siano dei paradisi fiscali. Perché le aziende oneste che lavorano in Italia e vi pagano le tasse, giocano di nuovo con lo zaino sulle spalle mentre altri viaggiano senza. Se l’Europa vuol davvero diventare un mercato unico, allora non deve permettere i paradisi fiscali. E nemmeno insistere con questa bulimia normativa. Norme che sono in conflitto, farraginose e spesso incomprensibili. Per noi è spesso più difficile esportare in Europa che non dall’altra parte del mondo. Le norme corrispondono a tariffe pari al 45% sui beni e al 110% sui servizi. Altro che dazi di Trump al 15%».
Cosa possono, invece, fare le imprese?
«In Italia, e in Europa, abbiamo troppe pmi e troppo pochi campioni di filiera. L’acquisizione di Capitani, specializzata nella progettazione e produzione di macchine da caffè, va proprio in questa direzione. La qualità in tazza non dipende solo dal caffè, ma anche dalla macchina con cui lo fai. Noi produciamo a Barcellona delle macchine top di gamma, che però costano 600-700 euro. La maggioranza delle macchine sul mercato sono tra gli 80 e i 150 euro e queste noi le importiamo ancora da altri Paesi. L’unione fa la forza e anche la filiera».
Sul fronte del prodotto ci saranno novità?
“Stiamo accelerando sull’innovazione. Sono in rampa di lancio le Coffee B, delle capsule senza capsula. Sono delle palline compresse con intorno dell’alginato compostabile al 100%. Tu prendi la pallina, fai il tuo caffè, poi metti quello che rimane in una pianta e quello è concime. L’abbiamo già testato in Svizzera e Francia, il prodotto sta andando benissimo e adesso lo lanciamo nel nostro mercato principale».
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