Il risiko bancario non è un gioco – dell’Opa e delle Ops – ma un processo strategico che più o meno razionalmente è destinato a ridisegnare la mappa del credito e del risparmio degli italiani. Sei operazioni in corso, una già conclusa, coinvolgono gruppi che insieme valgono 140 miliardi sui circa 900 dell’intero listino di Piazza Affari. Alle manovre di mercato, però, ora si stanno aggiungendo “euromanine” più solerti del solito, che rischiano di frenare il processo di consolidamento del settore, peraltro tanto auspicato dalla Bce, in antitesi alle salutari del governo Meloni.
Basta mettere in fila quanto accaduto nelle ultime settimane per avere conferma delle anomalie. Il 2 aprile il quotidiano Libero ha rivelato che Almorò Rubin De Cervin, responsabile della Direzione generale della stabilità finanziaria e dell’Unione dei mercati dei capitali (che, per la cronaca, ancora non esiste per l’ostinata resistenza tedesca), ha inviato una lettera a Palazzo Chigi nella quale stigmatizza la possibilità che l’operazione avviata da Unicredit sul Banco Bpm venga sottoposta al vaglio delle nostre norme di Golden Power. Lo zelante funzionario ha chiesto, con tono ultimativo, chiarimenti sulle intenzioni del governo perché, a suo dire, solo la Bce ha il potere di sindacare su un’operazione che coinvolge la stabilità finanziaria del Paese. a sua volta la Commissione Ue è pronta a usare l’arsenale normativo che ha a disposizione: l’articolo 21, comma 4, del regolamento 139/2004 sul controllo delle concentrazioni. L’articolo spiega che, nel momento in cui un’operazione è notificata all’autorità europea per la concorrenza perché supera determinati livelli di fatturato, questa autorità (cioè la Direzione generale per la concorrenza) decide se l’operazione può andare avanti.
A ribattere a queste sciocchezze grossolane ci ha pensato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. «Bruxelles – ha replicato secco – ha delle competenze in materia bancaria di concorrenza. Ma sulla sicurezza nazionale decide lo Stato italiano e non l’Europa, almeno fino a questo momento». Tre giorni dopo, guarda caso, senza alcuna apparente ragione è tornato nel mirino dell’Eurogruppo che, per bocca del commissario Valdis Dombrovskis, ha sollecitato la ratifica del Nuovo Mes. «La ratifica ci sarà quando avremo i numeri in Parlamento», ha risposto a sua volta Giorgetti.
In tutto questo agitarsi non si registrano nuove prese di posizione da parte della Banca d’Italia, il cui ruolo sembra sempre più confinato a quello di un pregevole ufficio studi. Nel suo intervento all’ultimo Assiom Forex, il governatore Fabio Panetta si era limitato a sottolineare che «le operazioni bancarie annunciate ridurrebbero il divario dimensionale» tra i principali istituti italiani e i concorrenti europei e che «l’esito sarà deciso dal mercato e dagli azionisti». In quelle parole era sembrato di leggere una convinzione netta, ovvero che se da una parte Panetta vede con favore il processo di aggregazione in corso – di là delle modalità con cui si stanno svolgendo le singole operazioni – dall’altra ritiene sia giusto che a decidere, nel rispetto delle regole nazionali, siano il mercato e gli azionisti. Manca ovviamente l’interpretazione autentica delle sue parole, quindi è difficile immaginare quale sia oggi il suo pensiero. Ma chi lo ha frequentato in questi anni, prima in veste di direttore generale della Banca d’Italia e poi come membro del board della Bce, sostiene che la sua avversione ai burocratismi di Bruxelles è genetica.
Per tornare alle azioni di disturbo della Commissione, va inoltre segnalato che il 7 maggio è arrivato un altro avvertimento. Si tratta dell’avvio di una procedura di infrazione contro l’Italia «per non aver recepito correttamente la direttiva sui diritti degli azionisti delle società quotate». Il punto finito nel mirino dei burocrati Ue non è la possibilità o meno di tenere le assemblee solo a distanza (come prevede la Legge Capitali), ma i poteri affidati al cosiddetto rappresentante dei piccoli soci designato e il fatto che questi possa essere indicato solo dalla società, oltre al fatto che all’azionista rappresentato «non è consentita portare proposte di deliberazione in assemblea». L’Italia, secondo l’avvertimento, ha ora due mesi di tempo per rispondere e colmare le lacune sollevate.
Sul punto, però, si era già espresso un anno fa il consiglio Nazionale del Notariato escludendo l’esistenza di un profilo di incompatibilità – dunque smontando la tesi al centro della lettera di infrazione inviata da Bruxelles – in quanto la direttiva Ue prevede due modalità alternative per facilitare il diritto di partecipare e votare nelle assemblee generali. Quindi anche se da un lato la nuova disposizione limitasse la partecipazione diretta degli azionisti, dall’altro sarebbe rispettata la facilitazione di introdurre la possibilità per l’intermediario di esercitare i diritti degli azionisti su esplicita autorizzazione e istruzione dell’azionista.
E pensare che sullo sfondo ci sono regole europee che aspettano di essere riviste o eliminate quando il contesto cambia e la loro funzione svanisce.
La crescente complessità regolatoria sta portando molte banche a dedicare risorse significative alla conformità normativa, tanto che in alcuni casi le regole avvantaggiano solo i concorrenti più forti. Epperò Bruxelles sembra sorda a qualunque invito a mettervi mano. Il presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, ritiene che il regolamento Fida (Financial Data Asset) in fase di finalizzazione in un contesto storico profondamente diverso rispetto a quello in cui era stato concepito, dovrebbe invece essere ritirato o radicalmente riformato. Qualcuno batte un colpo lassù? Nemmeno per sogno, il loro sguardo è rivolto altrove.
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