L’industria della moda e del lusso dovrà viaggiare col passaporto. Digitale. Dal 2027, infatti, il cosiddetto Dpp (Digital Product Passport) diventerà obbligatorio per tutti i comparti produttivi, a cominciare da quello del fashion. Ogni capo di abbigliamento, ma anche ogni borsa o stiletto, avrà una “carta d’identità ambientale” tracciabile lungo la filiera e nel tempo. Un vero e proprio registro digitale che fornirà informazioni dettagliate sul ciclo di vita di un prodotto, dalle origini della materia prima ai vari componenti, dalla produzione, alla cura, allo smaltimento o al riciclo. Servirà a certificare la supply chain garantendo la provenienza del bene, la garanzia della qualità e la protezione dalle contraffazioni. Sarà una rivoluzione per i consumatori, che potranno scegliere con consapevolezza, ma soprattutto per le aziende.
Il passaporto digitale
Secondo il regolamento dell’Unione Europea, tutti i prodotti tessili in circolazione nel Vecchio Continente dovranno essere provvisti di un passaporto univoco, accessibile tramite un Qr o un altro identificatore, che fornirà informazioni dettagliate, mettendo un freno al rischio di greenwashing, che oggi rappresenta un freno al decollo della moda sostenibile. Conterrà indicazioni complete, dalla materia prima alla filiera produttiva e distributiva, dalla manutenzione del prodotto alle modalità di smaltimento. Il provvedimento è inserito nell’Eco-design for Sustainable Products Regulation (Espr) varato dalla Ue, che ha così riscritto le regole della progettazione e della produzione dei beni immessi sul mercato europeo. Nell’ambito del Green Deal e del piano d’azione per l’economia circolare, l’Espr impone ai produttori requisiti ambientali stringenti lungo l’intero ciclo di vita del prodotto. Uno dei pilastri centrali di questa trasformazione è appunto il passaporto digitale dei prodotti.
L’impatto sulle imprese
«Per le aziende della moda, tradizionalmente orientate a cicli brevi e catene del valore complesse, l’impatto sarà profondo. E i legali in-house avranno un ruolo cruciale nel guidare il cambiamento», spiega a Moneta l’avvocato Matilde Rota, partner dello studio Withers.
Le imprese saranno chiamate a ripensare il design dei capi in un’ottica di maggiore longevità e circolarità, nel rispetto di una normativa che impone requisiti concreti e misurabili in termini di durabilità, riparabilità, riciclabilità, contenuto di materiali riciclati, uso di sostanze pericolose e impronta ambientale dei prodotti. Questo significa ripensare le logiche di collezione, selezione dei materiali, gestione degli stock e produzione. «Il piano d’azione che le aziende dovranno mettere in campo prevede la revisione dei contratti di fornitura, delle policy interne e delle strategie di conformità normativa. Sarà necessario integrare valutazioni ambientali nei processi decisionali fin dalle prime fasi della progettazione». La non conformità agli obblighi previsti dall’Espr potrà comportare il ritiro dal mercato del prodotto, sanzioni amministrative e potenzialmente l’esposizione a contenziosi civili, incluse class action da parte dei consumatori.
«Per i brand il passaporto digitale può rappresentare anche uno strumento di marketing, un’opportunità di stabilire con i propri clienti un nuovo livello di interazione e di esperienza condividendo informazioni sul processo di realizzazione del prodotto nonché sulla sua autenticità. Avrà un ruolo nello storytelling del prodotto e dello stesso marchio», aggiunge Rota. Che sottolinea, però, anche l’impegno da prendere sul fronte della compliance e dei nuovi investimenti in tracciabilità, innovazione e formazione. «Questo cambiamento non riguarda solo i big, riguarda un po’ tutta la filiera, anzi forse riguarda più i piccoli, perché le grandi aziende sono già molto avanti con gli investimenti.
Cosa cambia
La sfida sarà armonizzare questo sistema all’interno di un contesto normativo in cui l’Europa ci chiede sempre di più trasparenza sulla tracciabilità e quindi sulla filiera dei fornitori, su tutta la catena del valore, e dove i piccoli faranno più fatica ad adeguarsi a questi nuovi sistemi. Tutti dovranno cambiare le strategie interne in termini di collezioni, in termini di inventari e di gestione delle rimanenze». Alcune aziende stanno già organizzando dei consorzi cercando di mettere insieme le forze per centralizzare gli investimenti e aprire la possibilità ad altri brand che magari sono meno strutturati di poter usufruire del know-how necessario. «Anche perché – spiega l’esperta di Withers – andrà fatto un grande lavoro sulla filiera. Prima di inserire i dati della supply chain all’interno del passaporto digitale da mostrare all’esterno e che è oggetto di controlli, non solo dai consumatori ma anche dagli enti regolatori, devo essere sicura dei miei fornitori. L’azienda dovrà fare audit anche sui suoi fornitori. E questo apre però a un tema di conservazione dati legato alla riservatezza di quali sono appunto i fornitori, verso cui soprattutto le grandi griffe sono molto sensibili».
Al digital passport, utile per la lotta alla contraffazione, si aggiunge in Italia il “Protocollo d’intesa per la legalità dei contratti di appalto nelle filiere della moda” siglato a fine maggio nella sede della Prefettura di Milano per migliorare le condizioni di lavoro e contrastare lo sfruttamento, il caporalato, l’evasione fiscale e previdenziale in tutta la filiera della moda italiana. Marchi e fornitori saranno invitati a inviare i dati a un database centrale, che verrà poi utilizzato per generare una “lista verde” di fornitori approvati, con premi e incentivi per quelli che la Prefettura ritiene i più virtuosi. Si tratta di un protocollo volontario, sottoscritto insieme alle associazioni di categoria Confindustria Moda e Camera Nazionale della Moda Italiana. Può aderire al protocollo qualsiasi azienda di moda italiana, non solo quelle che operano a livello locale. Insomma, è una moral suasion in più.
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