Tre milioni e mezzo di lavoratori contano di poter spendere ogni mese tra 150 e 200 euro senza pagarci le tasse. Grazie ai buoni pasto. Un mercato che vale circa 4,5 miliardi di euro (nel 2024). Tutto bene? Non proprio. Intanto perché il beneficio riguarda solo il 20-25% dei potenziali fruitori. E poi perché si tratta di un voucher “intermediato”, cioè per poterne fruire si attiva un circuito che ha più a che fare con la finanza che con il welfare aziendale. L’equilibrio potrebbe essersi rotto grazie, o a causa, di una norma approvata lo scorso mese di dicembre nel Dl Concorrenza: non si potranno più chiedere commissioni oltre il 5% agli esercenti che accettano i buoni pasto. Ma qui occorrono un po’ di chiarimenti.
Il “buono pasto” è un titolo di legittimazione, emesso da una società “emettitrice”, e dovrebbe sostituire il servizio di mensa, nelle aziende che intendano assicurarlo ai loro dipendenti. La legge impone alle aziende la creazione di uno spazio adibito a “refettorio”, ma non pretende l’elargizione di un servizio mensa, sancisce solo il diritto per il lavoratore, che faccia un turno di lavoro oltre le sei ore, di poter consumare il pasto in un adeguato spazio temporale (pausa) e fisico (refettorio).
Dopo il Covid anche le aziende che avevano allestito il servizio mensa hanno fatto molti passi indietro. E il buono pasto ha fatto qualche passo avanti. Sufficienti per giustificare la battaglia a suon di spot cui assistiamo da qualche mese, soprattutto tra il leader di mercato, la francese Edenred e il newcomer più agguerrito, Satispay. Molti scommettono sull’espansione di un mercato, che se dovesse sfondare nelle Pmi potrebbe esplodere. Per il lavoratore il vantaggio è netto: più o meno il valore di una mensilità di stipendio in più, senza tasse né contributi. Infatti, il 72% di chi lo può utilizzare (per concessione dell’azienda o per contrattazione) lo considera il benefit più gradito.
Fino allo scorso anno il mercato, anche se con un perimetro assai stretto, rispetto al potenziale (tra dipendenti privati e pubblici ci sono in Italia circa 17 milioni di lavoratori, ma solo 3,5 milioni hanno il buono pasto) assicurava margini di redditività altissimi. Tre i fattori di vantaggio assoluto per la società emettitrice di buoni pasto: la possibilità dello scorporo Iva, la gestione degli sconti/commissioni imposte agli esercenti che accettano il buono, la gestione finanziaria che assicura l’incasso immediato (l’azienda che compra i buoni dall’emettitore per affidarli ai dipendenti, paga subito) e il consumo che può essere assai ritardato (tra l’emissione e l’incasso possono passare anche 60-90 giorni). Un’attività finanziaria assai redditizia, che ha perso la sua componente originaria di servizio.
Cambia la funzione del buono
Il buono pasto è diventato una commodity: si negozia solo il prezzo. Lo sconto da applicare all’azienda cliente, la commissione da pretendere dall’esercente. Se la mensa aziendale preservava un valore e una finalità sociale – il bravo imprenditore ha talmente a cuore i propri collaboratori che si preoccupa di assicurare loro un pasto caldo di buona qualità – l’erogazione di un “buono” libera tutti da tutto. Mangia quello che vuoi, se vuoi mangiare, altrimenti accumula i buoni per farti la spesa. Infatti, l’81% dei buoni pasto è consumata nella grande distribuzione (con punte fino al 90% e oltre nelle realtà metropolitane), dal momento che è consentito usare fino a 8 buoni pasto in uno stesso atto di acquisto. È evidente che è stato sciolto qualunque legame rivolto alla preservazione di un buon rapporto vita-lavoro, attraverso una nutrizione adeguata e puntuale. Basta welfare aziendale, “solo” integrazione salariale.
Le fintech in campo
E l’emettitore di buoni pasto svolge esclusivamente un servizio finanziario (e amministrativo) per l’azienda cliente. Non a caso tra i competitor (oggi risultano 14 le società emettitrici di buoni pasto) si stanno moltiplicando le fintech, italiane (da Satispay a Toduba) e straniere (come la portoghese Coverflex). Ad oggi, il mercato è ancora molto concentrato: le tre “sorelle” francesi, Edenred, Pluxee e Up Day insieme fanno più o meno l’80% del fatturato e controllano l’associazione di categoria, Anseb. In Francia il mercato dei buoni pasto vale il doppio dell’Italia, più o meno 9 miliardi.
In questo piccolo Bengodi – per le società emettitrici – è piombata la norma del Dl Concorrenza che impone un limite del 5% alle commissioni che si possono richiedere agli esercenti. Prima di questa soglia gli emettitori di buoni pasto riuscivano a strappare anche il 15-20%. Il 5% era riservato solo ai bandi pubblici. Oggi vale per tutto il mercato. Subito per i nuovi contratti di convenzionamento. I buoni pasto distribuiti entro il 1° settembre 2025 potranno essere utilizzati fino al 31 dicembre 2025, alle condizioni contrattuali precedenti. Dal primo gennaio 2026 la norma entra nella sua piena operatività.
Anseb teme una perdita di fatturato di circa 180 milioni per i suoi associati, confessando in questo modo l’aggio spremuto dagli esercenti. Si profila una guerra tra poveri: il danno potrà essere riversato sui lavoratori, che avranno forse meno buoni e di valore inferiore; e quindi per i piccoli esercenti. In questo orizzonte c’è chi aveva chiesto la fine del “buono pasto”: perché non mettere in busta paga il valore, assicurando detassazione e decontribuzione (come è già possibile fare, anche se con valori inferiori), tagliando il circuito dei privilegi (per gli emettitori) del buono?
Le società emettitrici sanno di avere Confcommercio (e Fipe) dalla loro parte: sciogliere definitivamente il buono pasto dal “pasto” vorrebbe dire liberare risorse finanziarie per i lavoratori, che invece che rivolgerle alla spesa quotidiana, potrebbero indirizzarle alla sanità integrativa o alla previdenza complementare.
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