Le micro, piccole e medie imprese costituiscono oltre il 90% del tessuto produttivo italiano. Eppure, nonostante il loro ruolo strategico, restano sempre ai confini del dibattito pur confrontandosi con normative complesse – come la legge Omnibus o il primo disegno di legge annuale sulle pmi ora in discussione in Parlamento – senza un vero dialogo con le istituzioni, in particolare a livello europeo.
“Le pmi italiane hanno un costo del lavoro inferiore rispetto a Francia e Germania ma sono penalizzate da oneri non salariali elevati, costi energetici superiori e una burocrazia complessa. Per questo serve una strategia di medio-lungo termine, almeno quadriennale, che agisca in modo trasversale su ambiti chiave come le filiere, la semplificazione normativa, la transizione green, la digitalizzazione e l’accesso al credito”, spiega Pasquale Lampugnale, vicepresidente di Piccola Industria Confindustria e ceo di Sidersan, azienda specializzata nella pre-lavorazione dell’acciaio e tra i principali attori della filiera siderurgica del centro sud.
“Nel disegno di legge ci sono molte cose positive. Come gli incentivi sui contratti di rete, perché il tema delle aggregazioni deve essere spinto favorendo crescita e competitività. Quello che manca, però, è una visione d’insieme. Abbiamo bisogno di strumenti su misura, perché all’interno della stessa categoria c’è un grosso divario tra le medie e le micro imprese e gli strumenti non possono essere necessariamente gli stessi. L’Italia è fatta da tante aziende ancora a trazione familiare. Non abbiamo bisogno di strumenti annuali da discutere in ogni legge di bilancio, ma di una visione di lungo periodo, almeno di carattere triennale”. Secondo Lampugnale si sta spingendo troppo sulla sostenibilità green pensando di aver già completato la transizione tecnologica e digitale, “e invece ancora non è così”.
E poi c’è il tema dell’accesso al credito. “Nelle microimprese, ovvero le aziende familiari fino a dieci dipendenti, c’è bisogno di una maggiore educazione e cultura finanziaria. C’è ancora moltissimo lavoro da fare perché il bilancio in queste aziende viene considerato sempre e solo uno strumento di carattere fiscale senza capire che serve all’imprenditore, anche piccolo, per capire dove sta andando l’azienda e che è lo strumento con il quale si parla all’esterno. Una rappresentazione corretta del bilancio, significa saper parlare alle banche”. Che, a loro volta, devono tornare a parlare con le aziende perché non sono solo numeri.
“Ho avuto un’esperienza tra il 2013 e il 2018 nel gruppo dell’allora Banco Popolare come consigliere del comitato Centro Sud. All’ epoca, le banche Popolari erano le banche di territorio che avevano come focus il sostegno a imprese e famiglie. Oggi, con le aggregazioni, questa vicinanza ai territori un po’ l’abbiamo persa. Anche per esperienza vissuta sia in azienda sia in banca, nelle relazioni di credito, più decentri il livello decisionale verso l’alto e lo sposti dai territori, più viene meno quella vicinanza alle imprese che serve anche per valutarne l’affidabilità”.
Quanto alle piccole imprese, possono contare sul fondo di garanzia che ha funzionato molto bene durante il Covid. C’è una discussione aperta su un suo eventuale ridimensionamento ma noi pensiamo che resti un sostegno alle pmi e che vada reso strutturale, cui vanno aggiunti strumenti di finanza complementare come i cosiddetti basket bond, da considerare nell’ottica di un’impresa che cresce. Perché un’impresa che emette un’obbligazione, sostanzialmente apre le porte della sua struttura al mercato esterno. Ciò significa crescere, dotarsi di un’organizzazione più efficiente e avere una sorta di certificazione in più”.
Come ceo di Sidersan, Lampugnale è anche preoccupato per il futuro della siderurgia tra costi dell’energia e revisione del Cbam (il Carbon Border Adjustment Mechanism, ovvero il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere) prevista con il piano sull’acciaio europeo ma non sufficiente, e le conseguenze dei dazi Usa al 50 per cento. “Lavoriamo direttamente con il mercato a valle, quindi con gli utilizzatori finali, come le industrie e anche le imprese di costruzione. Siamo abituati alla volatilità che fa parte del nostro settore, il nostro mestiere sta nell’intercettare e capire i movimenti di mercato. Però con la politica protezionistica degli Stati Uniti, gran parte della produzione di acciaio si riverserà in Europa dove le norme di salvaguardia non sono state concepite in modo tale da proteggere un’industria siderurgica che già vive un problema di sovracapacità produttiva. Noi non siamo un’acciaieria, noi compriamo acciaio, lo lavoriamo e lo vendiamo al cliente finale e stiamo vedendo una riduzione dei prezzi abbastanza costante”, aggiunge.
“Senza dimenticare la disparità enorme tra chi produce in Italia e chi produce in Europa, con i costi della sostenibilità che ci penalizzano con i concorrenti extraeuropei che giocano con regole diverse. E all’interno della stessa Europa non abbiamo una struttura d’impresa omogenea, l’Italia ha tante microaziende ancora a trazione familiare che trainano la nostra economia e stanno facendo la loro parte per la crescita, la Francia ha le medie imprese, la Germania le grandi industrie. Questa frammentazione non può non essere considerata nelle scelte di politica industriale”.
© Riproduzione riservata